SETTIMO E ULTIMO VIAGGIO DI SINDBAD IL MARINAIO.

Al ritorno dal mio sesto viaggio, abbandonai completamente l'idea di farne ancora degli altri. A parte il fatto che ero arrivato a un'età che richiedeva soltanto riposo, mi ero ben ripromesso di non espormi più ai pericoli che avevo tante volte corso. Perciò pensavo solo a passare tranquillamente il resto della mia vita. Un giorno in cui offrivo un banchetto ad alcuni amici, uno dei miei servi venne ad avvertirmi che un ufficiale del califfo chiedeva di me. Mi alzai da tavola e gli andai incontro. - Il califfo, - mi disse, - mi ha incaricato di venire a dirvi che vuole parlarvi. Seguii a palazzo l'ufficiale che mi presentò a quel principe; lo salutai prosternandomi ai suoi piedi ed egli mi disse: - Sindbad, ho bisogno di voi; dovete rendermi un servigio e andare a portare la mia risposta e i miei doni al re di Serendib: è giusto che io gli renda la cortesia che mi ha usato. L'ordine del califfo fu per me un colpo di fulmine. - Principe dei credenti, - gli dissi, - sono pronto a eseguire tutto quanto Vostra Maestà vorrà ordinarmi; ma la supplico molto umilmente di pensare che sono spossato dalle incredibili fatiche sostenute. Ho persino fatto voto di non uscire mai da Bagdad. Presi l'occasione per fargli un lungo racconto di tutte le mie avventure, che egli ebbe la pazienza di ascoltare fino in fondo. Appena ebbi finito di parlare, mi disse: -Ammetto che sono avvenimenti veramente straordinari, ma, tuttavia, non devono impedirvi di compiere per amor mio il viaggio che vi propongo. Si tratta solo di andare all'isola di Serendib per assolvere l'incarico che vi affido. Fatto questo sarete libero di ritornare. Ma dovete andarci, perché capite bene che non sarebbe cortese né dignitoso per me essere debitore al re di quell'isola. Vedendo che il califfo esigeva assolutamente da me ciò che mi chiedeva, gli comunicai che ero pronto ad ubbidirgli. Egli se ne rallegrò e mi fece dare mille zecchini per le spese di viaggio. In pochi giorni mi preparai alla partenza e, appena mi ebbero consegnato i doni del califfo insieme con una lettera scritta di suo pugno, partii e presi la strada di Bassora dove mi imbarcai. La mia navigazione fu felicissima. Arrivai all'isola di Serendib. Esposi ai ministri la commissione di cui ero incaricato e li pregai di farmi accordare udienza al più presto. Non mancarono di farlo. Mi portarono a palazzo con tutti gli onori; arrivatovi, salutai il re prosternandomi secondo i suoi costumi. Quel principe mi riconobbe subito e manifestò una gioia tutta particolare di rivedermi. - Ah, Sindbad! - mi disse, - siate il benvenuto! Vi giuro che dopo la vostra partenza, ho pensato molto spesso a voi. Benedico questo giorno, che ci permette di rivederci ancora una volta. Gli presentai i miei omaggi e, dopo averlo ringraziato della bontà che aveva per me, gli presentai la lettera e il dono del califfo, che egli ricevette con tutti i segni di una grande soddisfazione. Il califfo gli inviava un letto completo di lenzuola d'oro, valutato mille zecchini, cinquanta abiti di ricchissima stoffa, altri cento di tela bianca, la più fine del Cairo, di Suez, di Kufa (1) e di Alessandria; un altro letto cremisi e ancora un altro di forma diversa; un vaso di agata più largo che profondo, dello spessore di un dito e con una bocca larga mezzo piede, il cui fondo rappresentava, in bassorilievo, un uomo con un ginocchio a terra, che reggeva un arco e una freccia, nell'atto di tirare contro un leone; gli inviava, infine, una ricca tavola che si credeva, per tradizione, essere appartenuta al grande Salomone. La lettera del califfo era concepita in questi termini: "Salute, in nome del sovrano guida della diritta strada, al potente e felice sultano, da parte di Abdalla Harun-al-Rashid, che Dio ha messo al posto d'onore, dopo i suoi antenati di felice memoria. Abbiamo ricevuto con gioia la vostra lettera, e v'inviamo questa, emanata dal consiglio della nostra Porta, il giardino degli spiriti superiori. Speriamo che, leggendola, conosciate la nostra buona intenzione e che vi piaccia. Addio". Il re di Serendib fu molto contento vedendo che il califfo rispondeva all'amicizia che lui gli aveva testimoniato. Poco tempo dopo quest'udienza, sollecitai quella per il mio congedo, che faticai molto a ottenere. Il re, congedandomi, mi fece un dono davvero considerevole. Mi rimbarcai immediatamente, con l'intenzione di tornarmene a Bagdad; ma non ebbi la fortuna di arrivarvi come speravo e Dio dispose diversamente. Tre o quattro giorni dopo la nostra partenza, fummo attaccati dai corsari, che ebbero pochissima difficoltà ad impossessarsi del nostro vascello in quanto non eravamo per niente in condizioni di difenderci. Alcuni membri dell'equipaggio vollero opporre resistenza, ma pagarono con la vita, io e tutti quelli che ebbero la prudenza di non opporsi al piano dei corsari, fummo fatti schiavi. Dopo che i corsari ci ebbero spogliato tutti e ci ebbero dato dei brutti abiti invece dei nostri, ci portarono in una grande isola, molto lontana, dove ci vendettero. Io caddi fra le mani di un ricco mercante, che appena mi ebbe comprato, mi portò a casa sua, dove mi fece mangiar bene e vestire decorosamente da schiavo. Qualche giorno dopo, poiché non si era ancora ben informato su di me, mi chiese se conoscevo qualche mestiere. Gli risposi, senza farmi riconoscere meglio, che non ero un artigiano ma un commerciante di professione e che i corsari che mi avevano venduto, mi avevano tolto tutto quello che avevo. - Ma ditemi, - riprese il mercante, - non sapreste tirare con l'arco? Gli risposi che avevo praticato quest'esercizio in gioventù e che da allora non lo avevo dimenticato. Allora mi diede un arco e delle frecce e fattomi salire dietro di lui su un elefante, mi portò in una foresta molto estesa a qualche ora di distanza dalla città. Ci spingemmo molto avanti e, quando ritenne opportuno fermarsi, mi fece scendere. Poi, mostrandomi un albero, mi disse: - Salite su quell'albero, e tirate sugli elefanti che vedete passare poiché in questa foresta ce n'è una quantità prodigiosa. Se ne abbattete qualcuno venite ad avvertirmi. Detto ciò, mi lasciò dei viveri, riprese la strada della città, e io restai in agguato sull'albero durante tutta la notte. Per tutto quel tempo non ne vidi alcuno; ma il giorno dopo, appena spuntò il sole, ne vidi apparire un gran numero. Tirai parecchie frecce e finalmente uno cadde a terra. Gli altri si ritirarono subito e mi lasciarono la libertà di andare ad avvertire il mio padrone della caccia che avevo fatto. Grazie a questa notizia egli mi offrì un buon pasto, lodò la mia perizia e mi fece mille affettuosità. Poi andammo insieme nella foresta, dove scavammo una fossa nella quale seppellimmo l'elefante che avevo ucciso. Il mio padrone si proponeva di ritornare quando l'animale fosse irnputridito, e di togliergli le zanne per venderle. Continuai questa caccia per due mesi, e non c'era giorno che non uccidessi un elefante. Non mi mettevo sempre in agguato sullo stesso albero, mi sistemavo a volte su uno a volte sull'altro. Una mattina, mentre aspettavo l'arrivo degli elefanti, mi accorsi con enorme stupore che, nell'attraversare la foresta, essi invece di passare come al solito davanti a me, si fermavano e poi mi venivano incontro con un rumore orribile e in numero così grande, che la terra ne era tutta coperta e tremava sotto i loro passi. Si avvicinarono all'albero sul quale mi trovavo e lo circondarono con la proboscide tesa e gli occhi fissi su di me. A questo spettacolo stupefacente, restai immobile e in preda a un tale terrore, che l'arco e le frecce mi caddero dalle mani. Non ero agitato da una vana paura. Dopo avermi guardato per un po', uno degli elefanti più grossi, circondò la base dell'albero con la sua proboscide e fece un sforzo così potente che lo sradicò e lo gettò a terra. Io caddi con l'albero, ma l'animale mi afferrò con la sua proboscide e mi caricò sul dorso, dove mi sedetti più morto che vivo, con la faretra attaccata alle spalle. Poi si mise alla testa di tutti gli altri che lo seguivano in gruppo, mi portò fino ad un certo posto e avendomi posato a terra, si ritirò con tutti quelli che lo accompagnavano. Immaginate, se è possibile, lo stato in cui mi trovavo: pensavo di sognare. Infine, dopo essere rimasto per qualche tempo disteso sul posto, non vedendo più elefanti, mi alzai e mi resi conto di trovarmi su una collina piuttosto lunga e larga, tutta ricoperta di ossa e di zanne di elefanti. Vi confesso che questo spettacolo mi fece fare un'infinità di riflessioni. Ammirai l'istinto di quegli animali. Non dubitai che si trattasse del loro cimitero e che mi ci avessero portato espressamente per indicarmelo e farmi smettere di perseguitarli, visto che lo facevo solo allo scopo di avere le loro zanne. Non mi fermai sulla collina; rivolsi i miei passi verso la città e, dopo aver camminato per un giorno e una notte, arrivai dal mio padrone. Non incontrai nessun elefante sulla mia strada; il che mi fece capire che si erano spinti più oltre nella foresta, per lasciarmi la libertà di andare senza ostacoli alla collina. Appena il padrone mi vide, mi disse: - Ah povero Sindbad! Ero in gran pena non sapendo che cosa ti fosse successo. Sono stato nella foresta, vi ho trovato un albero sradicato di recente, un arco e delle frecce a terra; e, dopo averti cercato inutilmente, disperavo di rivederti mai più. Raccontami, ti prego, che cosa ti è successo. Per quale fortuna sei ancora in vita? Soddisfeci la sua curiosità e, il giorno dopo, andammo insieme alla collina, dove vide con immensa gioia che tutto quello che gli avevo detto era vero. Caricammo l'elefante sul quale eravamo venuti di tutte le zanne che poteva portare, e quando fummo di ritorno, egli mi disse: - Fratello (poiché non voglio più trattarvi da schiavo dopo il piacere che mi avete reso con una scoperta che mi arricchirà), Dio vi colmi di ogni sorta di beni e di prosperità! Dichiaro davanti a lui di donarvi la libertà! Vi avevo nascosto quanto sto per dirvi: gli elefanti della nostra foresta fanno morire ogni anno un'infinità di schiavi che noi mandiamo in cerca di avorio. Per quanti consigli diamo loro, essi perdono prima o poi la vita per le astuzie di quegli animali. Dio vi ha liberato dalla loro furia e ha concesso questa grazia soltanto a voi. E' un segno che vi predilige e ha bisogno di voi nel mondo, per il bene che dovete fare. Voi mi procurate un incredibile profitto: fino a questo momento abbiamo potuto procurarci l'avorio solo esponendo la vita dei nostri schiavi, perciò tutta la nostra città ora è più ricca grazie a voi. Non crediate che io pretenda di avervi ricompensato a sufficienza concedendovi la libertà; voglio aggiungere a questo dono dei beni considerevoli. Potrei spingere tutta la città a fare la vostra fortuna: ma è una gloria che voglio riservare solo a me. A questo gentile discorso, risposi: - Padrone, Dio vi conservi! La libertà che mi accordate basta a sdebitarvi con me, e per tutta ricompensa del servizio che ho avuto la fortuna di rendervi, a voi e alla vostra città, vi chiedo solo il permesso di tornarmene al mio paese. - Ebbene, - replicò il mercante, - Monsone (2) ci porterà tra poco delle navi che verranno a caricare l'avorio. Vi farò imbarcare e vi darò di che poter vivere al vostro paese. Lo ringraziai di nuovo della libertà che mi aveva concesso e delle buone intenzioni che aveva verso di me. Restai da lui in attesa del Monsone, e, intanto, facemmo tanti viaggi alla collina da riempire i suoi magazzini di avorio. Tutti i mercanti della città che commerciavano in avorio fecero lo stesso: infatti la notizia non rimase a lungo segreta. Finalmente le navi arrivarono. Il mio padrone, dopo aver scelto personalmente quella sulla quale dovevo imbarcarmi, la caricò d'avorio, dandomene la metà. Non dimenticò di farvi caricare anche provviste in abbondanza per la mia traversata e, inoltre, mi costrinse ad accettare doni di grande valore e alcune curiosità del paese. Dopo averlo ringraziato come potei di tutti i benefici che avevo ricevuto da lui mi imbarcai. Facemmo vela e, poiché l'avventura che mi aveva procurato la libertà era molto straordinaria, ci pensavo continuamente. Ci fermammo in alcune isole per ristorarci. Poiché la nostra nave veniva da un porto di terra ferma delle Indie, andammo ad approdarvi. Qui, per evitare i pericoli del mare fino a Bassora, feci sbarcare l'avorio che mi apparteneva, deciso a continuare il mio viaggio per terra. Ricavai dal mio avorio una grossa somma di denaro e con questa comprai molte cose rare, per farne dei regali e, quando il mio bagaglio fu pronto, mi unii a una grossa carovana di mercanti. Rimasi a lungo in viaggio e soffrii molto; ma sopportavo con pazienza, riflettendo che non avevo più da temere né le tempeste, né i corsari, né i serpenti, né tutti gii altri pericoli che avevo corso. Finalmente tutte queste fatiche ebbero fine: arrivai felicemente a Bagdad. Per prima cosa andai a presentarmi al califfo e gli resi conto della mia ambasciata. Quel principe mi disse che la lunghezza del mio viaggio gli aveva causato dell'inquietudine, ma che tuttavia aveva sempre sperato che Dio non mi abbandonasse. Quando gli riferii l'avventura degli elefanti, ne sembrò molto stupito, e avrebbe rifiutato di crederci se la mia sincerità non gli fosse stata nota. Egli giudicò questa storia e le altre che gli raccontai tanto curiose, che incaricò uno dei suoi segretari di scriverle in caratteri d'oro, per essere conservate nel suo tesoro. Mi ritirai molto contento dell'onore e dei doni che mi fece, poi mi dedicai interamente alla mia famiglia, ai miei parenti e ai miei amici. Così Sindbad terminò il racconto del suo settimo e ultimo viaggio. Poi, rivolgendosi a Hindbad, soggiunse: - Ebbene, amico mio, avete sentito che qualcuno abbia sofferto come me, o che qualche mortale si sia trovato in situazioni così angosciose? Non è giusto che, dopo tante fatiche, io goda di una vita piacevole e tranquilla? Mentre finiva queste parole, Hindbad gli si avvicinò e, baciandogli la mano, disse: - Bisogna ammettere, signore, che avete corso incredibili pericoli; le mie pene non sono paragonabili alle vostre. Se esse mi affliggono mentre le sopporto, me ne consolo con i piccoli profitti che ne ricavo. Voi meritate non solo una vita tranquilla, siete anche degno di tutti i beni che possedete, poiché ne fate un uso così buono e siete tanto generoso. Continuate dunque a vivere nella gioia, fino all'ora della vostra morte. Sindbad gli fece dare ancora cento zecchini, lo accolse nella schiera dei suoi amici, gli disse di lasciare la sua professione di facchino e di continuare ad andare a pranzo da lui: così avrebbe avuto modo di ricordarsi per tutta la vita di Sindbad il marinaio.       NOTE. NOTA 1: Città dell'Iraq sul braccio occidentale dell'Eufrate, a cinquanta leghe a Sud Ovest di Bagdad. NOTA 2: Questa parola è molto usata nella navigazione dei mari del Levante. Si tratta di un vento regolare che soffia durante sei mesi da ponente a levante, e sei mesi da levante a ponente (Nota dell'edizione del 1745).                         SETTIMO E ULTIMO VIAGGIO DI SINDBAD IL MARINAIO. Al ritorno dal mio sesto viaggio, abbandonai completamente l'idea di farne ancora degli altri. A parte il fatto che ero arrivato a un'età che richiedeva soltanto riposo, mi ero ben ripromesso di non espormi più ai pericoli che avevo tante volte corso. Perciò pensavo solo a passare tranquillamente il resto della mia vita. Un giorno in cui offrivo un banchetto ad alcuni amici, uno dei miei servi venne ad avvertirmi che un ufficiale del califfo chiedeva di me. Mi alzai da tavola e gli andai incontro. - Il califfo, - mi disse, - mi ha incaricato di venire a dirvi che vuole parlarvi. Seguii a palazzo l'ufficiale che mi presentò a quel principe; lo salutai prosternandomi ai suoi piedi ed egli mi disse: - Sindbad, ho bisogno di voi; dovete rendermi un servigio e andare a portare la mia risposta e i miei doni al re di Serendib: è giusto che io gli renda la cortesia che mi ha usato. L'ordine del califfo fu per me un colpo di fulmine. - Principe dei credenti, - gli dissi, - sono pronto a eseguire tutto quanto Vostra Maestà vorrà ordinarmi; ma la supplico molto umilmente di pensare che sono spossato dalle incredibili fatiche sostenute. Ho persino fatto voto di non uscire mai da Bagdad. Presi l'occasione per fargli un lungo racconto di tutte le mie avventure, che egli ebbe la pazienza di ascoltare fino in fondo. Appena ebbi finito di parlare, mi disse: -Ammetto che sono avvenimenti veramente straordinari, ma, tuttavia, non devono impedirvi di compiere per amor mio il viaggio che vi propongo. Si tratta solo di andare all'isola di Serendib per assolvere l'incarico che vi affido. Fatto questo sarete libero di ritornare. Ma dovete andarci, perché capite bene che non sarebbe cortese né dignitoso per me essere debitore al re di quell'isola. Vedendo che il califfo esigeva assolutamente da me ciò che mi chiedeva, gli comunicai che ero pronto ad ubbidirgli. Egli se ne rallegrò e mi fece dare mille zecchini per le spese di viaggio. In pochi giorni mi preparai alla partenza e, appena mi ebbero consegnato i doni del califfo insieme con una lettera scritta di suo pugno, partii e presi la strada di Bassora dove mi imbarcai. La mia navigazione fu felicissima. Arrivai all'isola di Serendib. Esposi ai ministri la commissione di cui ero incaricato e li pregai di farmi accordare udienza al più presto. Non mancarono di farlo. Mi portarono a palazzo con tutti gli onori; arrivatovi, salutai il re prosternandomi secondo i suoi costumi. Quel principe mi riconobbe subito e manifestò una gioia tutta particolare di rivedermi. - Ah, Sindbad! - mi disse, - siate il benvenuto! Vi giuro che dopo la vostra partenza, ho pensato molto spesso a voi. Benedico questo giorno, che ci permette di rivederci ancora una volta. Gli presentai i miei omaggi e, dopo averlo ringraziato della bontà che aveva per me, gli presentai la lettera e il dono del califfo, che egli ricevette con tutti i segni di una grande soddisfazione. Il califfo gli inviava un letto completo di lenzuola d'oro, valutato mille zecchini, cinquanta abiti di ricchissima stoffa, altri cento di tela bianca, la più fine del Cairo, di Suez, di Kufa (1) e di Alessandria; un altro letto cremisi e ancora un altro di forma diversa; un vaso di agata più largo che profondo, dello spessore di un dito e con una bocca larga mezzo piede, il cui fondo rappresentava, in bassorilievo, un uomo con un ginocchio a terra, che reggeva un arco e una freccia, nell'atto di tirare contro un leone; gli inviava, infine, una ricca tavola che si credeva, per tradizione, essere appartenuta al grande Salomone. La lettera del califfo era concepita in questi termini: "Salute, in nome del sovrano guida della diritta strada, al potente e felice sultano, da parte di Abdalla Harun-al-Rashid, che Dio ha messo al posto d'onore, dopo i suoi antenati di felice memoria. Abbiamo ricevuto con gioia la vostra lettera, e v'inviamo questa, emanata dal consiglio della nostra Porta, il giardino degli spiriti superiori. Speriamo che, leggendola, conosciate la nostra buona intenzione e che vi piaccia. Addio". Il re di Serendib fu molto contento vedendo che il califfo rispondeva all'amicizia che lui gli aveva testimoniato. Poco tempo dopo quest'udienza, sollecitai quella per il mio congedo, che faticai molto a ottenere. Il re, congedandomi, mi fece un dono davvero considerevole. Mi rimbarcai immediatamente, con l'intenzione di tornarmene a Bagdad; ma non ebbi la fortuna di arrivarvi come speravo e Dio dispose diversamente. Tre o quattro giorni dopo la nostra partenza, fummo attaccati dai corsari, che ebbero pochissima difficoltà ad impossessarsi del nostro vascello in quanto non eravamo per niente in condizioni di difenderci. Alcuni membri dell'equipaggio vollero opporre resistenza, ma pagarono con la vita, io e tutti quelli che ebbero la prudenza di non opporsi al piano dei corsari, fummo fatti schiavi. Dopo che i corsari ci ebbero spogliato tutti e ci ebbero dato dei brutti abiti invece dei nostri, ci portarono in una grande isola, molto lontana, dove ci vendettero. Io caddi fra le mani di un ricco mercante, che appena mi ebbe comprato, mi portò a casa sua, dove mi fece mangiar bene e vestire decorosamente da schiavo. Qualche giorno dopo, poiché non si era ancora ben informato su di me, mi chiese se conoscevo qualche mestiere. Gli risposi, senza farmi riconoscere meglio, che non ero un artigiano ma un commerciante di professione e che i corsari che mi avevano venduto, mi avevano tolto tutto quello che avevo. - Ma ditemi, - riprese il mercante, - non sapreste tirare con l'arco? Gli risposi che avevo praticato quest'esercizio in gioventù e che da allora non lo avevo dimenticato. Allora mi diede un arco e delle frecce e fattomi salire dietro di lui su un elefante, mi portò in una foresta molto estesa a qualche ora di distanza dalla città. Ci spingemmo molto avanti e, quando ritenne opportuno fermarsi, mi fece scendere. Poi, mostrandomi un albero, mi disse: - Salite su quell'albero, e tirate sugli elefanti che vedete passare poiché in questa foresta ce n'è una quantità prodigiosa. Se ne abbattete qualcuno venite ad avvertirmi. Detto ciò, mi lasciò dei viveri, riprese la strada della città, e io restai in agguato sull'albero durante tutta la notte. Per tutto quel tempo non ne vidi alcuno; ma il giorno dopo, appena spuntò il sole, ne vidi apparire un gran numero. Tirai parecchie frecce e finalmente uno cadde a terra. Gli altri si ritirarono subito e mi lasciarono la libertà di andare ad avvertire il mio padrone della caccia che avevo fatto. Grazie a questa notizia egli mi offrì un buon pasto, lodò la mia perizia e mi fece mille affettuosità. Poi andammo insieme nella foresta, dove scavammo una fossa nella quale seppellimmo l'elefante che avevo ucciso. Il mio padrone si proponeva di ritornare quando l'animale fosse irnputridito, e di togliergli le zanne per venderle. Continuai questa caccia per due mesi, e non c'era giorno che non uccidessi un elefante. Non mi mettevo sempre in agguato sullo stesso albero, mi sistemavo a volte su uno a volte sull'altro. Una mattina, mentre aspettavo l'arrivo degli elefanti, mi accorsi con enorme stupore che, nell'attraversare la foresta, essi invece di passare come al solito davanti a me, si fermavano e poi mi venivano incontro con un rumore orribile e in numero così grande, che la terra ne era tutta coperta e tremava sotto i loro passi. Si avvicinarono all'albero sul quale mi trovavo e lo circondarono con la proboscide tesa e gli occhi fissi su di me. A questo spettacolo stupefacente, restai immobile e in preda a un tale terrore, che l'arco e le frecce mi caddero dalle mani. Non ero agitato da una vana paura. Dopo avermi guardato per un po', uno degli elefanti più grossi, circondò la base dell'albero con la sua proboscide e fece un sforzo così potente che lo sradicò e lo gettò a terra. Io caddi con l'albero, ma l'animale mi afferrò con la sua proboscide e mi caricò sul dorso, dove mi sedetti più morto che vivo, con la faretra attaccata alle spalle. Poi si mise alla testa di tutti gli altri che lo seguivano in gruppo, mi portò fino ad un certo posto e avendomi posato a terra, si ritirò con tutti quelli che lo accompagnavano. Immaginate, se è possibile, lo stato in cui mi trovavo: pensavo di sognare. Infine, dopo essere rimasto per qualche tempo disteso sul posto, non vedendo più elefanti, mi alzai e mi resi conto di trovarmi su una collina piuttosto lunga e larga, tutta ricoperta di ossa e di zanne di elefanti. Vi confesso che questo spettacolo mi fece fare un'infinità di riflessioni. Ammirai l'istinto di quegli animali. Non dubitai che si trattasse del loro cimitero e che mi ci avessero portato espressamente per indicarmelo e farmi smettere di perseguitarli, visto che lo facevo solo allo scopo di avere le loro zanne. Non mi fermai sulla collina; rivolsi i miei passi verso la città e, dopo aver camminato per un giorno e una notte, arrivai dal mio padrone. Non incontrai nessun elefante sulla mia strada; il che mi fece capire che si erano spinti più oltre nella foresta, per lasciarmi la libertà di andare senza ostacoli alla collina. Appena il padrone mi vide, mi disse: - Ah povero Sindbad! Ero in gran pena non sapendo che cosa ti fosse successo. Sono stato nella foresta, vi ho trovato un albero sradicato di recente, un arco e delle frecce a terra; e, dopo averti cercato inutilmente, disperavo di rivederti mai più. Raccontami, ti prego, che cosa ti è successo. Per quale fortuna sei ancora in vita? Soddisfeci la sua curiosità e, il giorno dopo, andammo insieme alla collina, dove vide con immensa gioia che tutto quello che gli avevo detto era vero. Caricammo l'elefante sul quale eravamo venuti di tutte le zanne che poteva portare, e quando fummo di ritorno, egli mi disse: - Fratello (poiché non voglio più trattarvi da schiavo dopo il piacere che mi avete reso con una scoperta che mi arricchirà), Dio vi colmi di ogni sorta di beni e di prosperità! Dichiaro davanti a lui di donarvi la libertà! Vi avevo nascosto quanto sto per dirvi: gli elefanti della nostra foresta fanno morire ogni anno un'infinità di schiavi che noi mandiamo in cerca di avorio. Per quanti consigli diamo loro, essi perdono prima o poi la vita per le astuzie di quegli animali. Dio vi ha liberato dalla loro furia e ha concesso questa grazia soltanto a voi. E' un segno che vi predilige e ha bisogno di voi nel mondo, per il bene che dovete fare. Voi mi procurate un incredibile profitto: fino a questo momento abbiamo potuto procurarci l'avorio solo esponendo la vita dei nostri schiavi, perciò tutta la nostra città ora è più ricca grazie a voi. Non crediate che io pretenda di avervi ricompensato a sufficienza concedendovi la libertà; voglio aggiungere a questo dono dei beni considerevoli. Potrei spingere tutta la città a fare la vostra fortuna: ma è una gloria che voglio riservare solo a me. A questo gentile discorso, risposi: - Padrone, Dio vi conservi! La libertà che mi accordate basta a sdebitarvi con me, e per tutta ricompensa del servizio che ho avuto la fortuna di rendervi, a voi e alla vostra città, vi chiedo solo il permesso di tornarmene al mio paese. - Ebbene, - replicò il mercante, - Monsone (2) ci porterà tra poco delle navi che verranno a caricare l'avorio. Vi farò imbarcare e vi darò di che poter vivere al vostro paese. Lo ringraziai di nuovo della libertà che mi aveva concesso e delle buone intenzioni che aveva verso di me. Restai da lui in attesa del Monsone, e, intanto, facemmo tanti viaggi alla collina da riempire i suoi magazzini di avorio. Tutti i mercanti della città che commerciavano in avorio fecero lo stesso: infatti la notizia non rimase a lungo segreta. Finalmente le navi arrivarono. Il mio padrone, dopo aver scelto personalmente quella sulla quale dovevo imbarcarmi, la caricò d'avorio, dandomene la metà. Non dimenticò di farvi caricare anche provviste in abbondanza per la mia traversata e, inoltre, mi costrinse ad accettare doni di grande valore e alcune curiosità del paese. Dopo averlo ringraziato come potei di tutti i benefici che avevo ricevuto da lui mi imbarcai. Facemmo vela e, poiché l'avventura che mi aveva procurato la libertà era molto straordinaria, ci pensavo continuamente. Ci fermammo in alcune isole per ristorarci. Poiché la nostra nave veniva da un porto di terra ferma delle Indie, andammo ad approdarvi. Qui, per evitare i pericoli del mare fino a Bassora, feci sbarcare l'avorio che mi apparteneva, deciso a continuare il mio viaggio per terra. Ricavai dal mio avorio una grossa somma di denaro e con questa comprai molte cose rare, per farne dei regali e, quando il mio bagaglio fu pronto, mi unii a una grossa carovana di mercanti. Rimasi a lungo in viaggio e soffrii molto; ma sopportavo con pazienza, riflettendo che non avevo più da temere né le tempeste, né i corsari, né i serpenti, né tutti gii altri pericoli che avevo corso. Finalmente tutte queste fatiche ebbero fine: arrivai felicemente a Bagdad. Per prima cosa andai a presentarmi al califfo e gli resi conto della mia ambasciata. Quel principe mi disse che la lunghezza del mio viaggio gli aveva causato dell'inquietudine, ma che tuttavia aveva sempre sperato che Dio non mi abbandonasse. Quando gli riferii l'avventura degli elefanti, ne sembrò molto stupito, e avrebbe rifiutato di crederci se la mia sincerità non gli fosse stata nota. Egli giudicò questa storia e le altre che gli raccontai tanto curiose, che incaricò uno dei suoi segretari di scriverle in caratteri d'oro, per essere conservate nel suo tesoro. Mi ritirai molto contento dell'onore e dei doni che mi fece, poi mi dedicai interamente alla mia famiglia, ai miei parenti e ai miei amici. Così Sindbad terminò il racconto del suo settimo e ultimo viaggio. Poi, rivolgendosi a Hindbad, soggiunse: - Ebbene, amico mio, avete sentito che qualcuno abbia sofferto come me, o che qualche mortale si sia trovato in situazioni così angosciose? Non è giusto che, dopo tante fatiche, io goda di una vita piacevole e tranquilla? Mentre finiva queste parole, Hindbad gli si avvicinò e, baciandogli la mano, disse: - Bisogna ammettere, signore, che avete corso incredibili pericoli; le mie pene non sono paragonabili alle vostre. Se esse mi affliggono mentre le sopporto, me ne consolo con i piccoli profitti che ne ricavo. Voi meritate non solo una vita tranquilla, siete anche degno di tutti i beni che possedete, poiché ne fate un uso così buono e siete tanto generoso. Continuate dunque a vivere nella gioia, fino all'ora della vostra morte. Sindbad gli fece dare ancora cento zecchini, lo accolse nella schiera dei suoi amici, gli disse di lasciare la sua professione di facchino e di continuare ad andare a pranzo da lui: così avrebbe avuto modo di ricordarsi per tutta la vita di Sindbad il marinaio.