SESTO VIAGGIO DI SINDBAD IL MARINAIO.

Signori, disse, siete sicuramente ansiosi di sapere come, dopo aver fatto cinque naufragi e aver corso tanti pericoli, potei decidermi ancora una volta a tentare la fortuna e a cercare nuove disgrazie. Quando ci penso me ne stupisco io stesso, e dovevo certamente esservi trascinato dalla mia stella. Comunque sia, dopo un anno di riposo, mi preparai a compiere un sesto viaggio, nonostante le preghiere dei miei parenti e dei miei amici, che fecero tutto il possibile per trattenermi. Invece di dirigermi verso il golfo Persico, attraversai ancora una volta parecchie province della Persia e delle Indie, e arrivai a un porto di mare, dove m'imbarcai su una buona nave, il cui capitano era deciso a fare una lunga navigazione. Per la verità, fu lunghissima, ma nello stesso tempo così sfortunata, che il capitano e il pilota smarrirono la rotta, e ignoravano dove fossimo. Finalmente scoprirono dove ci trovavamo, ma tutti noi passeggeri non avemmo motivo di rallegrarcene. Un giorno, fummo grandemente stupiti vedendo il capitano lasciare il suo posto e mettersi a gridare. Gettò a terra il suo turbante, si strappò la barba e si percosse il viso, come un uomo uscito di senno per la disperazione. Gli chiedemmo per quale motivo si disperasse tanto. - Vi annuncio, - ci rispose, - che siamo nel punto più pericoloso del mare. Una corrente rapidissima trascina la nave, e tra meno di un quarto d'ora, moriremo tutti. Pregate Dio che ci scampi da questo pericolo: se Egli non avrà pietà di noi, non potremo sfuggirvi! Dette queste parole, ordinò di far ammainare le vele; ma i cordami si ruppero durante la manovra e la nave, senza che fosse possibile porvi rimedio, fu trascinata dalla corrente ai piedi di una montagna inaccessibile, dove si incagliò e si spezzò, in un modo, però, che riuscimmo a metterci in salvo ed avemmo anche il tempo di sbarcare i nostri viveri e le nostre merci più preziose. Fatto ciò, il capitano ci disse: - Dio ha fatto quello che gli è piaciuto. Ora possiamo scavarci ognuno la nostra fossa, e darci l'estremo addio, perché siamo in un posto così funesto che nessuno di coloro che vi sono stati gettati prima di noi è ritornato a casa. Questo discorso ci gettò tutti in un'afflizione mortale, e ci abbracciammo gli uni con gli altri, con le lacrime agli occhi, deplorando la nostra sventurata sorte. La montagna, ai piedi della quale eravamo, formava la costa di un'isola molto lunga e vastissima. Questa costa era tutta coperta di relitti di velieri che vi avevano fatto naufragio. Da un'infinità di ossa che si incontravano di tanto in tanto, e che ci facevano orrore, giudicammo inoltre che vi si erano perdute molte persone. Altra cosa quasi incredibile fu la quantità di merci e di ricchezze che si offrirono ai nostro occhi da tutte le parti. Tutti quegli oggetti servirono soltanto ad accrescere la desolazione in cui eravamo. Mentre in ogni altro posto i fiumi escono dal loro letto per gettarsi nel mare, qui invece un grosso fiume di acqua dolce si allontana dal mare e penetra nella costa attraverso un'oscura grotta, dall'apertura sommamente alta e larga. Quello che c'è di più notevole in questo posto, è il fatto che le pietre della montagna sono di cristallo, di rubino o di altre pietre preziose. C'è anche una sorgente di una specie di pece o di bitume che cola in mare. I pesci la ingoiano e la vomitano poi trasformata in ambra grigia, e le onde la buttano di nuovo sulla sabbia che ne è piena. Vi crescono anche degli alberi per la maggior parte di aloe, che non sono meno buoni di quelli di Comari. Per completare la descrizione di questo posto, che si può definire un baratro, poiché mai niente vi torna indietro, è impossibile che le navi, una volta giunte a una certa distanza da esso, possano evitarlo. Se vi sono spinte da un vento di mare, il vento e la corrente le distruggono, e se si trovano in quel punto quando soffia il vento di terra, il che potrebbe favorire il loro allontanamento, l'altezza della montagna ferma il vento e provoca una calma che lascia agire la corrente, che trascina le navi contro la costa dove si spezzano come era accaduto alla nostra. Per colmo di sventura, non è possibile raggiungere la cima della montagna né mettersi in salvo da nessuna parte. Restammo sulla riva, come persone che abbiano perso il bene dell'intelletto e aspettino la morte di giorno in giorno. Prima di tutto ci eravamo divisi i viveri in parti uguali; così ciascuno visse più o meno a lungo degli altri, secondo il suo temperamento e secondo l'uso che fece delle proprie provviste. Quelli che morirono per primi furono sepolti dagli altri, quanto a me, resi gli ultimi servigi a tutti i miei compagni; e non bisogna stupirsene perché, a parte il fatto che avevo amministrato meglio le provviste che mi erano toccate nella spartizione, ne avevo anche altre personali di cui mi ero ben guardato dal farli partecipi. Tuttavia, quando seppellii l'ultimo, mi restavano così pochi viveri, che pensai di non poter andare lontano; perciò mi scavai la tomba, deciso a gettarmici dentro, visto che non restava più nessuno per seppellirmi. Vi confesserò che, mentre ero intento a questo lavoro, non potei fare a meno di pensare che ero io stesso la causa della mia rovina, e di pentirmi di aver intrapreso quest'ultimo viaggio. E non mi fermai alle riflessioni; mi colpii con furore, e poco mancò che non affrettassi la mia morte. Ma Dio ebbe ancora una volta pietà di me, e mi ispirò l'idea di andare fino al fiume che si perdeva sotto la volta della grotta. Là, dopo aver esaminato il fiume con molta attenzione, dissi fra me e me: "Questo fiume, che si nasconde in questo modo sotto terra, deve pure uscirne in qualche punto; costruendo una zattera e lasciandomi andare alla corrente dell'acqua, arriverò a una terra abitata o morirò, se muoio avrò soltanto cambiato tipo di morte; se invece esco da questo luogo fatale, non soltanto eviterò il triste destino dei miei compagni, ma troverò forse una nuova occasione di arricchirmi. Chi sa se la fortuna non mi aspetta all'uscita di questo orrido scoglio, per compensarmi ad usura delle perdite causatemi dal mio naufragio?". Dopo questo ragionamento, mi misi subito a lavorare intorno alla zattera, la costrui con buoni pezzi di legno e con grosse funi, perché ne avevo a scelta; li legai insieme così saldamente che ne feci una piccola costruzione molto solida. Quando fu finita, la caricai di rubini, di smeraldi, di ambra grigia, di cristalli di rocca e di stoffe preziose. Dopo aver sistemato tutte queste cose in equilibrio, e averle ben legate, mi imbarcai sulla zattera, con due piccoli remi che non avevo dimenticato di costruire e, abbandonandomi alla corrente del fiume mi affidai alla volontà di Dio. Appena fui sotto la volta, non vidi più nessuna luce e la corrente mi trascinò senza che io potessi vedere dove mi portasse. Vogai per qualche giorno in questa oscurità senza vedere mai il più piccolo raggio di luce. A un certo punto trovai la volta così bassa, che per poco non mi ferii la testa, il che mi rese molto attento ad evitare un simile pericolo. In questo frattempo mangiai, dei viveri che mi restavano, solo quelli assolutamente necessari per sostentarmi. Ma, nonostante la frugalità con la quale riuscivo a vivere, finii col consumare le mie provviste. Allora, senza che io potessi evitarlo, un dolce sonno si impadronì dei miei sensi. Non posso dirvi se dormii a lungo; ma, svegliandomi, mi trovai con stupore in una vasta campagna, in riva a un fiume dov'era legata la mia zattera, e circondato da un gran numero di negri. Appena li vidi mi alzai e li salutai. Essi mi parlarono, ma non capivo il loro linguaggio. In quel momento mi sentii così fuori di me dalla gioia, che non sapevo se sognavo o se ero desto. Convintomi di non dormire esclamai e recitai questi versi arabi: "Invoca l'Onnipossente, verrà in tuo aiuto: non c'è bisogno che ti occupi di altro. Chiudi gli occhi e, mentre dormirai, Dio muterà la tua fortuna da cattiva in buona". Uno dei negri, che capiva l'arabo, avendomi sentito parlare così avanzò verso di me e prese la parola: - Fratello, - mi disse, - non siate stupito di vederci. Abitiamo questa campagna, e oggi siamo venuti ad irrorare i nostri campi con l'acqua di questo fiume, che scaturisce dalla montagna vicina, dirottandola attraverso canaletti. Abbiamo notato che l'acqua trasportava qualche cosa, siamo subito corsi a vedere di che si trattava, e abbiamo trovato questa zattera; subito uno di noi si è gettato a nuoto e l'ha trasportata a riva. L'abbiamo fermata e legata come vedete, e stavamo aspettando il vostro risveglio. Vi supplichiamo di raccontarci la vostra storia, che dev'essere veramente straordinaria. Diteci come avete osato avventurarvi su questo fiume e da dove venite. Li pregai di darmi prima qualche cosa da mangiare, promettendo di soddisfare poi la loro curiosità. Mi portarono diverse qualità di cibi e, quando ebbi saziato la mia fame, feci loro un fedele racconto di tutto quanto mi era capitato; mi sembrò che ascoltassero con ammirazione. Appena ebbi finito il mio discorso, essi mi dissero, per bocca dell'interprete che aveva spiegato loro quanto avevo detto: - Ecco una storia delle più stupefacenti. Dovete venire voi stesso ad informare il re: la cosa è troppo straordinaria per essergli riportata da un altro che non sia colui al quale è successa. Replicai che ero pronto a fare ciò che mi chiedevano. I negri mandarono subito a prendere un cavallo che portarono poco dopo. Mi ci fecero salire sopra e, mentre una parte di essi camminava davanti a me per indicarmi il cammino, gli altri, che erano i più robusti, si caricarono sulle spalle la zattera così com'era, con tutti i bagagli, e cominciarono a seguirmi. Camminammo tutti insieme fino alla città di Serendib; mi trovavo, infatti, in quell'isola. I negri mi presentarono al loro re. Mi avvicinai al trono sul quale era seduto e lo salutai nel modo in cui si salutano i re delle Indie, cioè mi prosternai e baciai la terra. Il principe mi fece rialzare, e, ricevendomi in modo cortese, mi fece avanzare e prendere posto accanto a lui. Mi chiese prima di tutto come mi chiamavo. Dopo avergli risposto che mi chiamavo Sindbad, detto il marinaio a causa dei molti viaggi compiuti per mare, aggiunsi che ero cittadino di Bagdad. - Ma, - riprese il re, - come vi trovate nei miei Stati, e da dove vi siete arrivato? Non nascosi niente al re; gli feci lo stesso racconto che ora avete ascoltato, ed egli ne fu così meravigliato e così affascinato che ordinò di scrivere la mia avventura in lettere d'oro, per essere conservata negli archivi del suo regno. Più tardi portarono la zattera e aprirono in sua presenza i colli. Egli ammirò la quantità di legno di aloe e di ambra grigia, ma in special modo i rubini e gli smeraldi; infatti nel suo tesoro non ne aveva nessuno che potesse star loro alla pari. Notando che osservava con piacere le mie pietre, e considerava le più belle l'una dopo l'altra, mi prosternai e mi presi la libertà di dirgli: - Sire, non soltanto la mia persona è al servizio di Vostra Maestà, anche il carico della zattera è vostro, e vi supplico di disporne come di un bene che vi appartenga. Egli mi disse sorridendo: - Sindbad, mi guarderò bene dal provarne il minimo desiderio e dal togliervi niente di quanto Dio vi ha donato. Lungi dal diminuire le vostre ricchezze, voglio accrescerle e non permetterò che voi usciate dai miei Stati senza portare con voi qualche segno della mia liberalità. Risposi a queste parole soltanto facendo voti per la prosperità del principe e lodando la sua bontà e la sua generosità. Egli incaricò uno dei suoi ufficiali di aver cura di me, e mi fece dare dei domestici che mi servissero a sue spese. L'ufficiale eseguì fedelmente gli ordini del padrone e fece trasportare il carico della zattera nell'alloggio in cui mi accompagnò. Ogni giorno andavo, in alcune ore, a manifestare la mia devozione al re, impiegando il tempo rimanente a visitare la città e quanto c'era di più degno della mia curiosità. L'isola di Serendib è posta esattamente sotto la linea equinoziale, - perciò i giorni e le notti sono sempre di dodici ore, - e ha ottanta parasanghe (1) di lunghezza e altrettante di larghezza. La capitale è sita all'estremità di una bella valle, chiusa da una montagna che si trova al centro dell'isola, e che è certamente la più alta del mondo. Infatti, dal mare la si vede per tre giorni di navigazione. Vi si trovano rubini, diversi tipi di minerali, e tutte le rocce sono per lo più di smeriglio, che è una pietra metallica di cui ci si serve per tagliare le pietre preziose. Vi si vedono tutte le specie di alberi e di piante rare, soprattutto il cedro e il cocco. Lungo le sue rive e alle foci dei fiumi, vi si pescano perle, e alcune delle sue valli forniscono diamanti. Feci anche, per devozione, un viaggio sulla montagna, nel punto in cui fu relegato Adamo dopo essere stato scacciato dal paradiso terrestre, e provai la curiosità di salire fino alla vetta. Quando tornai in città, supplicai il re di permettermi di tornare nel mio paese, cosa che mi accordò in maniera molto cortese e onorevole. Mi spinse ad accettare un prezioso regalo che fece prendere dal suo tesoro e, mentre stavo congedandomi da lui, mi consegnò un altro regalo molto più considerevole insieme con una lettera per il Principe dei credenti, nostro sovrano e signore, dicendomi: - Vi prego di presentare da parte mia questo regalo e questa lettera al califfo Harun-al-Rashid e di assicurarlo della mia amicizia. Presi il dono e la lettera con rispetto, promettendo a Sua Maestà di eseguire fedelmente gli ordini che mi faceva l'onore d'impartirmi. Prima d'imbarcarmi, quel principe mandò a chiamare il capitano e i mercanti che dovevano imbarcarsi con me, e ordinò loro di avere per me tutti i riguardi possibili. La lettera del re di Serendib era scritta su una pelle di un animale preziosissimo a causa della sua rarità e il cui colore tende al giallo. I caratteri di questa lettera erano azzurri, ed ecco quello che conteneva in lingua indiana: "Il re delle Indie, davanti al quale marciano mille elefanti, che dimora in un palazzo dal tetto luccicante per lo splendore di centomila rubini e che possiede nel suo tesoro ventimila corone ornate di diamanti al califfo Harun-al-Rashid: Sebbene il dono che vi inviamo sia poco considerevole, ricevetelo tuttavia da fratello e da amico, in considerazione dell'amicizia che abbiamo per voi nel nostro cuore, e di cui siamo ben lieti di darvi una testimonianza. Vi chiediamo di avere per noi la stessa amicizia, visto che crediamo di meritarla, poiché la nostra condizione è simile alla vostra. Ve ne scongiuriamo da vero fratello. Addio". Il dono consisteva: prima di tutto in un vaso formato da un solo rubino, scavato e lavorato a coppa, di circa mezzo piede di altezza e di un dito di spessore, pieno di perle molto rotonde e tutte del peso di una mezza dramma; poi, in una pelle di serpente con le scaglie grandi come un pezzo ordinario di moneta d'oro e che aveva la facoltà di difendere dalle malattie quelli che vi dormivano sopra; per terza cosa, in cinquantamila dramme del più pregiato legno di aloe, con trenta grani di canfora della grossezza di un pistacchio; il tutto era accompagnato, infine, da una schiava di straordinaria bellezza, che indossava abiti coperti di pietre preziose. La nave fece vela e, dopo una lunga e felicissima navigazione, approdammo a Bassora da dove andai a Bagdad. La prima cosa che feci, dopo il mio arrivo, fu quella di eseguire la commissione di cui ero incaricato. Presi la lettera del re di Serendib e andai a presentarmi alla porta del Principe dei credenti, seguito dalla bella schiava e dai membri della mia famiglia che portavano i doni che avevo l'incarico di consegnare. Dissi il motivo che mi conduceva, e subito fui condotto davanti al trono del califfo. Gli feci la riverenza prosternandomi e, dopo avergli fatto un discorso molto conciso, gli presentai la lettera e il dono. Quando ebbe letto quanto gli scriveva il re di Serendib, mi chiese se era vero che quel re fosse così potente e così ricco come diceva nella sua lettera. Mi prosternai una seconda volta e, dopo essermi alzato, gli risposi: - Principe dei credenti, posso assicurare Vostra Maestà che egli non esagera le sue ricchezze e la sua potenza; ne sono testimone. Niente è capace di suscitare ammirazione più della magnificenza del suo palazzo. Quando quel principe vuole apparire in pubblico gli innalzano un trono sul dorso di un elefante, dove si siede, e avanza tra due file composte dai suoi ministri, dai suoi favoriti e da altre persone della sua corte. Davanti a lui, sullo stesso elefante, c'è un ufficiale con una lancia d'oro in mano e, dietro il trono, un altro ufficiale in piedi porta una colonna d'oro in cima alla quale vi è uno smeraldo lungo circa mezzo piede e della grossezza di un pollice. E' preceduto da una guardia di mille uomini, vestiti di drappo d'oro e di seta, che montano elefanti riccamente ingualdrappati. Mentre il re è in marcia, l'ufficiale che è davanti a lui, sullo stesso elefante, grida, ogni tanto a voce alta: "Ecco il grande monarca, il potente e temibile sultano delle Indie, il cui palazzo è coperto da centomila rubini, e che possiede ventimila corone di diamanti! Ecco il monarca coronato, più grande di quanto lo furono mai il grande Solima (2) e il grande Mihragio (3)!". Dopo aver pronunciato queste parole, l'ufficiale che sta dietro il trono grida a sua volta: "Questo monarca, così grande e così potente, deve morire, deve morire, deve morire". L'ufficiale che sta davanti riprende e grida poi: "Lode a colui che vive e non muore!". D'altronde il re di Serendib è così giusto che non vi sono giudici né nella sua capitale né nel resto dei suoi Stati, i suoi popoli non ne hanno bisogno. Conoscono e osservano essi stessi esattamente la giustizia, e non si discostano mai dal loro dovere. Perciò i tribunali e i magistrati da loro sono inutili. Il califfo fu molto soddisfatto del mio discorso. - La saggezza di questo re, - disse, - appare nella sua lettera e dopo ciò che mi avete detto, bisogna ammettere che la sua saggezza è degna dei suoi popoli e che i suoi popoli sono degni di essa. - Con queste parole mi congedò e mi rimandò con un ricco dono. A questo punto Sindbad smise di parlare e i suoi ascoltatori si ritirarono, ma prima Hindbad ricevette cento zecchini. Essi tornarono ancora il giorno dopo in casa di Sindbad, che raccontò loro il suo settimo e ultimo viaggio con queste parole.   NOTE. NOTA 1: I geografi orientali considerano la parasanga più lunga di una nostra lega (Nota dell'edizione del 1745). NOTA 2: Salomone. NOTA 3: Antico re di una grande isola dello stesso nome, nelle Indie, famosissimo, presso gli Arabi, per la sua potenza e saggezza.   SETTIMO E ULTIMO VIAGGIO DI SINDBAD IL MARINAIO. Al ritorno dal mio sesto viaggio, abbandonai completamente l'idea di farne ancora degli altri. A parte il fatto che ero arrivato a un'età che richiedeva soltanto riposo, mi ero ben ripromesso di non espormi più ai pericoli che avevo tante volte corso. Perciò pensavo solo a passare tranquillamente il resto della mia vita. Un giorno in cui offrivo un banchetto ad alcuni amici, uno dei miei servi venne ad avvertirmi che un ufficiale del califfo chiedeva di me. Mi alzai da tavola e gli andai incontro. - Il califfo, - mi disse, - mi ha incaricato di venire a dirvi che vuole parlarvi. Seguii a palazzo l'ufficiale che mi presentò a quel principe; lo salutai prosternandomi ai suoi piedi ed egli mi disse: - Sindbad, ho bisogno di voi; dovete rendermi un servigio e andare a portare la mia risposta e i miei doni al re di Serendib: è giusto che io gli renda la cortesia che mi ha usato. L'ordine del califfo fu per me un colpo di fulmine. - Principe dei credenti, - gli dissi, - sono pronto a eseguire tutto quanto Vostra Maestà vorrà ordinarmi; ma la supplico molto umilmente di pensare che sono spossato dalle incredibili fatiche sostenute. Ho persino fatto voto di non uscire mai da Bagdad. Presi l'occasione per fargli un lungo racconto di tutte le mie avventure, che egli ebbe la pazienza di ascoltare fino in fondo. Appena ebbi finito di parlare, mi disse: -Ammetto che sono avvenimenti veramente straordinari, ma, tuttavia, non devono impedirvi di compiere per amor mio il viaggio che vi propongo. Si tratta solo di andare all'isola di Serendib per assolvere l'incarico che vi affido. Fatto questo sarete libero di ritornare. Ma dovete andarci, perché capite bene che non sarebbe cortese né dignitoso per me essere debitore al re di quell'isola. Vedendo che il califfo esigeva assolutamente da me ciò che mi chiedeva, gli comunicai che ero pronto ad ubbidirgli. Egli se ne rallegrò e mi fece dare mille zecchini per le spese di viaggio. In pochi giorni mi preparai alla partenza e, appena mi ebbero consegnato i doni del califfo insieme con una lettera scritta di suo pugno, partii e presi la strada di Bassora dove mi imbarcai. La mia navigazione fu felicissima. Arrivai all'isola di Serendib. Esposi ai ministri la commissione di cui ero incaricato e li pregai di farmi accordare udienza al più presto. Non mancarono di farlo. Mi portarono a palazzo con tutti gli onori; arrivatovi, salutai il re prosternandomi secondo i suoi costumi. Quel principe mi riconobbe subito e manifestò una gioia tutta particolare di rivedermi. - Ah, Sindbad! - mi disse, - siate il benvenuto! Vi giuro che dopo la vostra partenza, ho pensato molto spesso a voi. Benedico questo giorno, che ci permette di rivederci ancora una volta. Gli presentai i miei omaggi e, dopo averlo ringraziato della bontà che aveva per me, gli presentai la lettera e il dono del califfo, che egli ricevette con tutti i segni di una grande soddisfazione. Il califfo gli inviava un letto completo di lenzuola d'oro, valutato mille zecchini, cinquanta abiti di ricchissima stoffa, altri cento di tela bianca, la più fine del Cairo, di Suez, di Kufa (1) e di Alessandria; un altro letto cremisi e ancora un altro di forma diversa; un vaso di agata più largo che profondo, dello spessore di un dito e con una bocca larga mezzo piede, il cui fondo rappresentava, in bassorilievo, un uomo con un ginocchio a terra, che reggeva un arco e una freccia, nell'atto di tirare contro un leone; gli inviava, infine, una ricca tavola che si credeva, per tradizione, essere appartenuta al grande Salomone. La lettera del califfo era concepita in questi termini: "Salute, in nome del sovrano guida della diritta strada, al potente e felice sultano, da parte di Abdalla Harun-al-Rashid, che Dio ha messo al posto d'onore, dopo i suoi antenati di felice memoria. Abbiamo ricevuto con gioia la vostra lettera, e v'inviamo questa, emanata dal consiglio della nostra Porta, il giardino degli spiriti superiori. Speriamo che, leggendola, conosciate la nostra buona intenzione e che vi piaccia. Addio". Il re di Serendib fu molto contento vedendo che il califfo rispondeva all'amicizia che lui gli aveva testimoniato. Poco tempo dopo quest'udienza, sollecitai quella per il mio congedo, che faticai molto a ottenere. Il re, congedandomi, mi fece un dono davvero considerevole. Mi rimbarcai immediatamente, con l'intenzione di tornarmene a Bagdad; ma non ebbi la fortuna di arrivarvi come speravo e Dio dispose diversamente. Tre o quattro giorni dopo la nostra partenza, fummo attaccati dai corsari, che ebbero pochissima difficoltà ad impossessarsi del nostro vascello in quanto non eravamo per niente in condizioni di difenderci. Alcuni membri dell'equipaggio vollero opporre resistenza, ma pagarono con la vita, io e tutti quelli che ebbero la prudenza di non opporsi al piano dei corsari, fummo fatti schiavi. Dopo che i corsari ci ebbero spogliato tutti e ci ebbero dato dei brutti abiti invece dei nostri, ci portarono in una grande isola, molto lontana, dove ci vendettero. Io caddi fra le mani di un ricco mercante, che appena mi ebbe comprato, mi portò a casa sua, dove mi fece mangiar bene e vestire decorosamente da schiavo. Qualche giorno dopo, poiché non si era ancora ben informato su di me, mi chiese se conoscevo qualche mestiere. Gli risposi, senza farmi riconoscere meglio, che non ero un artigiano ma un commerciante di professione e che i corsari che mi avevano venduto, mi avevano tolto tutto quello che avevo. - Ma ditemi, - riprese il mercante, - non sapreste tirare con l'arco? Gli risposi che avevo praticato quest'esercizio in gioventù e che da allora non lo avevo dimenticato. Allora mi diede un arco e delle frecce e fattomi salire dietro di lui su un elefante, mi portò in una foresta molto estesa a qualche ora di distanza dalla città. Ci spingemmo molto avanti e, quando ritenne opportuno fermarsi, mi fece scendere. Poi, mostrandomi un albero, mi disse: - Salite su quell'albero, e tirate sugli elefanti che vedete passare poiché in questa foresta ce n'è una quantità prodigiosa. Se ne abbattete qualcuno venite ad avvertirmi. Detto ciò, mi lasciò dei viveri, riprese la strada della città, e io restai in agguato sull'albero durante tutta la notte. Per tutto quel tempo non ne vidi alcuno; ma il giorno dopo, appena spuntò il sole, ne vidi apparire un gran numero. Tirai parecchie frecce e finalmente uno cadde a terra. Gli altri si ritirarono subito e mi lasciarono la libertà di andare ad avvertire il mio padrone della caccia che avevo fatto. Grazie a questa notizia egli mi offrì un buon pasto, lodò la mia perizia e mi fece mille affettuosità. Poi andammo insieme nella foresta, dove scavammo una fossa nella quale seppellimmo l'elefante che avevo ucciso. Il mio padrone si proponeva di ritornare quando l'animale fosse irnputridito, e di togliergli le zanne per venderle. Continuai questa caccia per due mesi, e non c'era giorno che non uccidessi un elefante. Non mi mettevo sempre in agguato sullo stesso albero, mi sistemavo a volte su uno a volte sull'altro. Una mattina, mentre aspettavo l'arrivo degli elefanti, mi accorsi con enorme stupore che, nell'attraversare la foresta, essi invece di passare come al solito davanti a me, si fermavano e poi mi venivano incontro con un rumore orribile e in numero così grande, che la terra ne era tutta coperta e tremava sotto i loro passi. Si avvicinarono all'albero sul quale mi trovavo e lo circondarono con la proboscide tesa e gli occhi fissi su di me. A questo spettacolo stupefacente, restai immobile e in preda a un tale terrore, che l'arco e le frecce mi caddero dalle mani. Non ero agitato da una vana paura. Dopo avermi guardato per un po', uno degli elefanti più grossi, circondò la base dell'albero con la sua proboscide e fece un sforzo così potente che lo sradicò e lo gettò a terra. Io caddi con l'albero, ma l'animale mi afferrò con la sua proboscide e mi caricò sul dorso, dove mi sedetti più morto che vivo, con la faretra attaccata alle spalle. Poi si mise alla testa di tutti gli altri che lo seguivano in gruppo, mi portò fino ad un certo posto e avendomi posato a terra, si ritirò con tutti quelli che lo accompagnavano. Immaginate, se è possibile, lo stato in cui mi trovavo: pensavo di sognare. Infine, dopo essere rimasto per qualche tempo disteso sul posto, non vedendo più elefanti, mi alzai e mi resi conto di trovarmi su una collina piuttosto lunga e larga, tutta ricoperta di ossa e di zanne di elefanti. Vi confesso che questo spettacolo mi fece fare un'infinità di riflessioni. Ammirai l'istinto di quegli animali. Non dubitai che si trattasse del loro cimitero e che mi ci avessero portato espressamente per indicarmelo e farmi smettere di perseguitarli, visto che lo facevo solo allo scopo di avere le loro zanne. Non mi fermai sulla collina; rivolsi i miei passi verso la città e, dopo aver camminato per un giorno e una notte, arrivai dal mio padrone. Non incontrai nessun elefante sulla mia strada; il che mi fece capire che si erano spinti più oltre nella foresta, per lasciarmi la libertà di andare senza ostacoli alla collina. Appena il padrone mi vide, mi disse: - Ah povero Sindbad! Ero in gran pena non sapendo che cosa ti fosse successo. Sono stato nella foresta, vi ho trovato un albero sradicato di recente, un arco e delle frecce a terra; e, dopo averti cercato inutilmente, disperavo di rivederti mai più. Raccontami, ti prego, che cosa ti è successo. Per quale fortuna sei ancora in vita? Soddisfeci la sua curiosità e, il giorno dopo, andammo insieme alla collina, dove vide con immensa gioia che tutto quello che gli avevo detto era vero. Caricammo l'elefante sul quale eravamo venuti di tutte le zanne che poteva portare, e quando fummo di ritorno, egli mi disse: - Fratello (poiché non voglio più trattarvi da schiavo dopo il piacere che mi avete reso con una scoperta che mi arricchirà), Dio vi colmi di ogni sorta di beni e di prosperità! Dichiaro davanti a lui di donarvi la libertà! Vi avevo nascosto quanto sto per dirvi: gli elefanti della nostra foresta fanno morire ogni anno un'infinità di schiavi che noi mandiamo in cerca di avorio. Per quanti consigli diamo loro, essi perdono prima o poi la vita per le astuzie di quegli animali. Dio vi ha liberato dalla loro furia e ha concesso questa grazia soltanto a voi. E' un segno che vi predilige e ha bisogno di voi nel mondo, per il bene che dovete fare. Voi mi procurate un incredibile profitto: fino a questo momento abbiamo potuto procurarci l'avorio solo esponendo la vita dei nostri schiavi, perciò tutta la nostra città ora è più ricca grazie a voi. Non crediate che io pretenda di avervi ricompensato a sufficienza concedendovi la libertà; voglio aggiungere a questo dono dei beni considerevoli. Potrei spingere tutta la città a fare la vostra fortuna: ma è una gloria che voglio riservare solo a me. A questo gentile discorso, risposi: - Padrone, Dio vi conservi! La libertà che mi accordate basta a sdebitarvi con me, e per tutta ricompensa del servizio che ho avuto la fortuna di rendervi, a voi e alla vostra città, vi chiedo solo il permesso di tornarmene al mio paese. - Ebbene, - replicò il mercante, - Monsone (2) ci porterà tra poco delle navi che verranno a caricare l'avorio. Vi farò imbarcare e vi darò di che poter vivere al vostro paese. Lo ringraziai di nuovo della libertà che mi aveva concesso e delle buone intenzioni che aveva verso di me. Restai da lui in attesa del Monsone, e, intanto, facemmo tanti viaggi alla collina da riempire i suoi magazzini di avorio. Tutti i mercanti della città che commerciavano in avorio fecero lo stesso: infatti la notizia non rimase a lungo segreta. Finalmente le navi arrivarono. Il mio padrone, dopo aver scelto personalmente quella sulla quale dovevo imbarcarmi, la caricò d'avorio, dandomene la metà. Non dimenticò di farvi caricare anche provviste in abbondanza per la mia traversata e, inoltre, mi costrinse ad accettare doni di grande valore e alcune curiosità del paese. Dopo averlo ringraziato come potei di tutti i benefici che avevo ricevuto da lui mi imbarcai. Facemmo vela e, poiché l'avventura che mi aveva procurato la libertà era molto straordinaria, ci pensavo continuamente. Ci fermammo in alcune isole per ristorarci. Poiché la nostra nave veniva da un porto di terra ferma delle Indie, andammo ad approdarvi. Qui, per evitare i pericoli del mare fino a Bassora, feci sbarcare l'avorio che mi apparteneva, deciso a continuare il mio viaggio per terra. Ricavai dal mio avorio una grossa somma di denaro e con questa comprai molte cose rare, per farne dei regali e, quando il mio bagaglio fu pronto, mi unii a una grossa carovana di mercanti. Rimasi a lungo in viaggio e soffrii molto; ma sopportavo con pazienza, riflettendo che non avevo più da temere né le tempeste, né i corsari, né i serpenti, né tutti gii altri pericoli che avevo corso. Finalmente tutte queste fatiche ebbero fine: arrivai felicemente a Bagdad. Per prima cosa andai a presentarmi al califfo e gli resi conto della mia ambasciata. Quel principe mi disse che la lunghezza del mio viaggio gli aveva causato dell'inquietudine, ma che tuttavia aveva sempre sperato che Dio non mi abbandonasse. Quando gli riferii l'avventura degli elefanti, ne sembrò molto stupito, e avrebbe rifiutato di crederci se la mia sincerità non gli fosse stata nota. Egli giudicò questa storia e le altre che gli raccontai tanto curiose, che incaricò uno dei suoi segretari di scriverle in caratteri d'oro, per essere conservate nel suo tesoro. Mi ritirai molto contento dell'onore e dei doni che mi fece, poi mi dedicai interamente alla mia famiglia, ai miei parenti e ai miei amici. Così Sindbad terminò il racconto del suo settimo e ultimo viaggio. Poi, rivolgendosi a Hindbad, soggiunse: - Ebbene, amico mio, avete sentito che qualcuno abbia sofferto come me, o che qualche mortale si sia trovato in situazioni così angosciose? Non è giusto che, dopo tante fatiche, io goda di una vita piacevole e tranquilla? Mentre finiva queste parole, Hindbad gli si avvicinò e, baciandogli la mano, disse: - Bisogna ammettere, signore, che avete corso incredibili pericoli; le mie pene non sono paragonabili alle vostre. Se esse mi affliggono mentre le sopporto, me ne consolo con i piccoli profitti che ne ricavo. Voi meritate non solo una vita tranquilla, siete anche degno di tutti i beni che possedete, poiché ne fate un uso così buono e siete tanto generoso. Continuate dunque a vivere nella gioia, fino all'ora della vostra morte. Sindbad gli fece dare ancora cento zecchini, lo accolse nella schiera dei suoi amici, gli disse di lasciare la sua professione di facchino e di continuare ad andare a pranzo da lui: così avrebbe avuto modo di ricordarsi per tutta la vita di Sindbad il marinaio.