QUARTO VIAGGIO DI SINDBAD IL MARINAIO.

I piaceri e i divertimenti, disse, ai quali mi diedi dopo il mio terzo viaggio, non esercitarono su di me un fascino abbastanza forte da convincermi a non viaggiare più. Mi lasciai trascinare ancora dalla mia passione di trafficare e di vedere cose nuove. Misi dunque in ordine i miei affari e, dopo aver fatto una scorta di merci da vendere nei luoghi dove avevo intenzione di andare, partii. Presi la strada della Persia, di cui attraversai parecchie province, e arrivai a un porto di mare dove mi imbarcai. Ci mettemmo in navigazione e, avevamo già toccato parecchi porti di terra ferma e alcune isole orientali, quando un giorno in cui facevamo un lungo tragitto, fummo sorpresi da un vento contrario che costrinse il capitano a far ammainare le vele e a dare tutti gli ordini necessari per prevenire il pericolo da cui eravamo minacciati. Ma tutte le nostre precauzioni furono inutili; la manovra non riuscì bene, le vele furono strappate in mille pezzi e il vascello, non potendo più essere governato, urtò contro gli scogli, e si spezzò in modo che un gran numero di mercanti e di marinai annegarono e il carico andò perduto. Io ebbi la fortuna, insieme con parecchi altri mercanti e marinai, di afferrarmi a una tavola. Fummo tutti trascinati da una corrente verso un'isola posta davanti a noi. Vi trovammo frutta e acqua di fonte che servirono a rimetterci in forze. Vi riposammo anche la notte, nel punto in cui il mare ci aveva gettati, senza aver preso nessuna decisione sul da farsi. L'abbattimento che sentivamo per la nostra disgrazia ci aveva, infatti, impedito di pensarvi. Il giorno dopo, appena il sole fu sorto, ci allontanammo dalla riva: e, avanzando nell'isola, vi vedemmo delle abitazioni verso le quali ci incamminammo. Al nostro arrivo, ci vennero incontro un gran numero di negri; ci circondarono, e ci afferrarono, fecero di noi una specie di spartizione, e poi ci portarono nelle loro case. Cinque dei miei camerati e io fummo portati nello stesso posto. Ci fecero prima sedere e ci servirono una specie di erba, invitandoci a cenni a mangiarla. I miei compagni, senza riflettere sul fatto che quelli che la offrivano non ne mangiavano, consultarono soltanto la loro fame, che era imperiosa, e si gettarono con avidità su quei cibi. Io, presentendo un inganno, non volli neppure assaggiarne, e me ne trovai bene. Infatti, poco tempo dopo, mi accorsi che i miei compagni erano impazziti e mi parlavano senza sapere che cosa dicevano. Poi mi servirono del riso preparato con olio di cocco e i miei compagni che non ragionavano più, ne mangiarono in abbondanza. Ne mangiai anch'io, ma pochissimo. I negri ci avevano per prima cosa offerto quell'erba per turbarci la mente, e toglierci così il dolore che doveva provocare in noi la triste conoscenza della nostra sorte, e ci davano del riso per ingrassarci. Essendo antropofagi, la loro intenzione era di mangiarci quando saremmo diventati grassi. E' quanto capitò ai miei compagni che ignoravano il loro destino, avendo perduto il buon senso. Poiché io avevo conservato il mio, capirete bene, signori, se, invece d'ingrassare come gli altri, diventai ancora più magro di quello che ero. La paura della morte, di cui ero continuamente preda, trasformava in veleno tutti gli alimenti che ingerivo. Caddi in un languore che mi fu molto salutare; infatti i negri, dopo aver ucciso e mangiato i miei compagni, si fermarono; e vedendomi secco, scarnito, malato, rimandarono la mia morte ad un altro momento. Nel frattempo, avevo molta libertà, ed essi poco si curavano di quello che facevo. Questo mi diede modo di allontanarmi un giorno dalle abitazioni dei negri e di fuggire. Un vecchio, che mi vide e intuì il mio piano, mi gridò con tutta la sua forza di tornare indietro, ma, invece di ubbidirgli, raddoppiai il mio passo e presto fui fuori dalla sua visuale. In quel momento, nelle abitazioni non c'era nessuno tranne quel vecchio: tutti gli altri negri si erano assentati e dovevano tornare solo sul finire del giorno, come avevano l'abitudine di fare abbastanza spesso. Perciò, sicuro che quando avessero saputo della mia fuga, non avrebbero fatto più in tempo a corrermi dietro, camminai fino a notte. Allora mi fermai, per riposarmi un po' e mangiare un po' di cibo che avevo portato con me. Ma presto ripresi il cammino, e continuai a camminare per sette giorni, evitando i posti che mi sembravano abitati. Vivevo di noci di cocco, che mi davano nello stesso tempo da bere e da mangiare. L'ottavo giorno, arrivai vicino al mare; improvvisamente vidi delle persone bianche come me, intente a cogliere del pepe, che in quel punto cresceva in grande abbondanza. La loro occupazione mi fu di buon augurio, non feci nessuna difficoltà ad avvicinarmi a loro ed essi mi vennero incontro. Appena mi videro, mi chiesero in arabo chi fossi e da dove venissi. Felice di udirli parlare con me, soddisfeci volentieri la loro curiosità, raccontando in che modo avevo fatto naufragio ed ero venuto in quell'isola, dove ero caduto nelle mani dei negri. - Ma questi negri, - mi dissero, - mangiano gli uomini! Per quale miracolo siete sfuggito alla loro crudeltà? Feci loro lo stesso racconto che avete udito, e furono estremamente stupiti. Rimasi con loro finché non ebbero raccolto tutto il pepe che vollero: dopo di che, mi fecero imbarcare sul bastimento che li aveva portati e andammo in un'altra isola, dalla quale erano venuti. Mi presentarono al loro re che era un buon principe. Egli ebbe la pazienza di ascoltare il racconto della mia avventura, che lo meravigliò. Poi, mi fece dare degli abiti e ordinò che ci si prendesse cura di me. L'isola in cui mi trovavo era molto popolosa e ricca di ogni specie di cose, e nella città dove abitava il re, vi si faceva un gran commercio. Questo piacevole asilo cominciò a consolarmi della mia sventura e le bontà che quel generoso principe aveva per me completarono la mia gioia. Infatti nessuno era da lui più benvoluto di me e perciò non c'era nessuno, né alla sua corte né in città che non cercasse l'occasione di farmi piacere. Perciò in breve tempo fui considerato come se fossi un nativo dell'isola piuttosto che uno straniero. Notai una cosa che mi sembrò molto straordinaria: tutti, perfino il re, montavano a cavallo senza briglia né staffe. Questo mi spinse a prendermi la libertà di chiedere un giorno perché Sua Maestà non si servisse di questa comodità. Egli mi rispose che gli stavo parlando di cose di cui, nei suoi Stati, ignoravano l'uso. Andai subito da un operaio e gli feci costruire il fusto di una sella sul modello che gli fornii. Finito il fusto della sella, lo guarnii io stesso di borra e cuoio, e lo ornai con un ricamo d'oro. Poi mi rivolsi a un fabbro ferraio che mi costruì un morso, della forma che gli mostrai, e delle staffe. Quando queste cose furono in perfetto stato, andai ad offrirle al re. Le provai io stesso su uno dei suoi cavalli, poi vi montò il principe, e fu così soddisfatto di quest'invenzione, che mi manifestò la sua gioia con grande elargizioni. Non potei evitare di fare parecchie selle per i suoi ministri e per i principali ufficiali di corte, i quali mi fecero tutti dei doni che in poco tempo mi arricchirono. Ne feci anche per le persone più qualificate della città, il che mi procurò una grande reputazione e mi fece stimare da tutti. Poiché ero sempre molto assiduo col re, un giorno questi mi disse: - Sindbad, ti voglio bene, e so che tutti i miei sudditi che ti conoscono ti hanno caro come me. Devo rivolgerti una preghiera e tu devi accordarmi quanto sto per chiederti. - Sire, - gli risposi, - non c'è niente che io non sia pronto a fare per dimostrare la mia ubbidienza alla Vostra Maestà; ella ha su di me un potere assoluto. - Io voglio darti moglie, - replicò il re, - affinché il matrimonio ti trattenga nei miei Stati, e non ti faccia pensare più alla tua patria. Poiché non osavo resistere alla volontà del principe, egli mi diede in moglie una dama della sua corte, nobile, bella, saggia e ricca. Dopo le cerimonie nuziali, mi stabilii in casa della dama, con la quale vissi per qualche tempo in perfetta armonia. Tuttavia non ero troppo contento del mio stato. Il mio piano era di fuggire alla prima occasione e di ritornare a Bagdad: infatti la mia sistemazione, per vantaggiosa che fosse, non poteva farmela dimenticare. Ero in preda a questi sentimenti, quando la moglie di un mio vicino, con il quale avevo stretto un'amicizia molto intima, cadde malata e morì. Andai da lui per consolarlo: e, trovandolo immerso nel più vivo dolore, gli dissi avvicinandomi: - Dio vi conservi e vi conceda lunga vita! - Ahimè! - mi rispose, - come volete che io ottenga la grazia che mi augurate? Mi resta una sola ora di vita. - Oh! - ripresi io, - non vi mettete in testa un pensiero tanto funesto; spero che questo non accada e di avere il piacere di vedervi ancora per molto tempo. - Io spero, - egli replicò, - che la vostra vita duri a lungo; quanto a me, i miei affari sono sistemati, e vi informo che oggi mi seppelliranno insieme con mia moglie. Questo è il costume che i nostri antenati hanno stabilito in quest'isola, e che hanno inviolabilmente mantenuto: il marito vivo viene sepolto con la moglie morta e la moglie viva con il marito morto. Niente può salvarmi; tutti subiscono questa legge. Mentre egli mi parlava di questa strana barbarie, la cui notizia mi spaventò crudelmente, i parenti, gli amici e i vicini arrivarono in folla per assistere ai funerali. Rivestirono il cadavere della moglie con i suoi abiti più ricchi, come nel giorno delle nozze, e lo ornarono con tutti i suoi gioielli. Poi la misero in una bara scoperta, e il convoglio si mise in cammino. Il marito era alla testa del corteo funebre, e seguiva il corpo della moglie. Presero il sentiero di un'alta montagna; e, arrivati, sollevarono una grossa pietra che copriva la bocca di un profondo pozzo, e vi calarono il cadavere senza togliergli niente dei suoi vestiti e dei suoi gioielli. Fatto questo, il marito abbracciò i parenti e gli amici e si lasciò mettere senza resistenza in una bara, con una brocca d'acqua e sette pagnottelle accanto; poi lo calarono nello stesso modo con cui avevano calato la moglie. La montagna si estendeva in lunghezza e limitava il mare, e il pozzo era molto profondo. Finita la cerimonia, rimisero la pietra a posto. Non c'è bisogno, signori, di dirvi che fui un tristissimo testimone di quei funerali. Tutte le altre persone che vi assistettero non sembrarono quasi colpite, essendo abituate a vedere così spesso la stessa cosa. Io non potei trattenermi dal dire al re quello che pensavo a questo proposito. - Sire, - gli dissi, - non mi stupirò mai abbastanza dello strano costume, in uso nei vostri Stati, di seppellire i vivi con i morti. Io ho viaggiato molto, ho frequentato persone di un'infinità di nazioni, e non ho mai sentito parlare di una legge tanto crudele. - Che cosa vuoi! - mi rispose il re. - E' una legge comune, Sindbad, e io stesso vi sono soggetto: sarò sepolto vivo con la regina, mia sposa, se morirà per prima. - Ma, Sire, - gli dissi, - posso osare di chiedere a Vostra Maestà se gli stranieri sono costretti ad osservare questo costume? - Certamente - replicò il re, sorridendo per il motivo della mia domanda; - quando sono sposati in quest'isola, non ne sono esenti. Me ne tornai tristemente a casa con questa risposta. La paura che mia moglie morisse prima di me e mi seppellissero vivo con lei mi faceva fare delle riflessioni molto mortificanti. Tuttavia, che rimedio trovare per questo male? Dovetti pazientare e rimettermi alla volontà di Dio. Nondimeno, alla minima indisposizione di mia moglie, tremavo. Ma ahimè! presto provai il massimo terrore. Lei cadde ammalata seriamente e morì in pochi giorni. Giudicate il mio dolore! Essere sepolto vivo non mi sembrava una fine meno deplorevole di quella di essere divorato dagli antropofagi: tuttavia bisognava sottostarvi. Il re, accompagnato da tutta la sua corte, volle onorare il convoglio funebre con la sua presenza. e le persone più importanti della città mi fecero anch'esse l'onore di assistere alla mia sepoltura. Quando tutto fu pronto per la cerimonia deposero il corpo di mia moglie in una bara, con tutti i suoi gioielli e i suoi abiti più ricchi. Il corteo cominciò a sfilare. Come secondo attore di quella pietosa tragedia, io seguivo immediatamente la bara di mia moglie, con gli occhi pieni di lacrime, e deplorando la mia sorte disgraziata. Prima di arrivare alla montagna, volli fare un tentativo sugli animi degli spettatori. Mi rivolsi prima di tutto al re, poi a quelli che si trovavano intorno a me; e, inchinandomi davanti ai loro occhi fino terra per baciare l'orlo delle loro vesti, li supplicai di avere compassione di me. - Considerate, - dicevo, - che sono uno straniero il quale non deve essere sottomesso a una legge così rigorosa, e che nel mio paese ho un'altra moglie e dei figli. - Ebbi un bel pronunciare queste parole in tono commovente, nessuno ne fu intenerito: anzi, si affrettarono a calare il corpo di mia moglie nel pozzo, e un momento dopo calarono anche me, in un'altra bara scoperta, con una brocca piena d'acqua e sette pagnotte. Infine, terminata questa cerimonia così funesta per me, rimisero la pietra sulla bocca del pozzo, nonostante l'eccesso del mio dolore e le mie grida pietose. Man mano che mi avvicinavo al fondo, scoprivo, grazie alla poca luce che veniva dall'alto, la disposizione di quel luogo sotterraneo. Era una vastissima grotta che poteva avere una profondità di cinquanta cubiti. Presto sentii un tanfo che si sprigionava da un'infinità di cadaveri ammucchiati a destra e a sinistra. Mi sembrò anche di sentire qualcuno degli ultimi sepolti emettere gli estremi sospiri. Tuttavia, arrivato al fondo, uscii prontamente dalla bara e mi allontanai dai cadaveri turandomi il naso. Mi gettai a terra dove restai a lungo immerso in un mare di lacrime. Allora, riflettendo sul mio destino, dicevo: - E' vero che Dio dispone di noi secondo i decreti della sua provvidenza. Ma, povero Sindbad, non è colpa tua se ti vedi ridotto a morire di una morte così strana! Ah! se Dio avesse voluto farti morire in qualcuno dei naufragi ai quali sei scampato! Ora non dovresti morire con una morte così lenta e così terribile in tutte le sue circostanze. Ma te lo sei attirato con la tua maledetta avarizia. Ah! infelice! dovevi piuttosto restare a casa e goderti tranquillamente i frutti delle tue fatiche! Queste erano le inutili lamentele delle quali facevo risuonare la grotta, battendomi la testa e lo stomaco per la rabbia e la disperazione, e abbandonandomi interamente ai pensieri più desolanti. Tuttavia (riuscirò a dirvelo?), invece di invocare la morte in mio aiuto, per miserabile che io fossi, l'amore della vita si fece ancora sentire in me e mi spinse a prolungare i miei giorni. Andai a tentoni, turandomi il naso, a prendere il pane e l'acqua che erano nella mia bara, e ne mangiai. Sebbene l'oscurità che regnava nella grotta fosse tanto fitta da non riuscire a distinguere il giorno dalla notte, trovai ugualmente la mia bara; e mi sembrò che la grotta fosse più spaziosa e più piena di cadaveri di quanto non mi era sembrata in un primo momento. Vissi qualche giorno del mio pane e della mia acqua; ma infine, non avendone più, mi preparai a morire. Aspettavo solo la morte, quando sentii sollevare la pietra. Calarono un cadavere e una persona vivente. Il morto era un uomo. E' naturale prendere estreme risoluzioni, quando si è agli ultimi estremi. Mentre calavano la donna, mi avvicinai al punto in cui doveva essere deposta la sua bara; e, quando vidi che stavano ricoprendo la bocca del pozzo, diedi sulla testa di quella sventurata due o tre colpi con un grande osso di cui mi ero fornito. Ella svenne, o forse la ammazzai; e, poiché facevo questa azione inumana solo per approfittare del pane e dell'acqua che erano nella sua bara, ebbi provviste per qualche giorno. Poi calarono ancora una donna morta e un uomo vivo, uccisi l'uomo nello stesso modo e poiché, per mia fortuna, in quel periodo ci fu in città una specie di epidemia, non mancavo di viveri, ricorrendo sempre alla stessa astuzia. Un giorno in cui avevo appena spedito al creatore un'altra donna, sentii un respiro e un suono di passi. Avanzai verso il punto da dove veniva il rumore; avvicinandomi sentii respirare più forte, e mi sembrò d'intravedere una forma in fuga. Seguii questa specie di ombra, che di tanto in tanto si fermava e, fuggendo, continuava ad ansimare, a mano a mano che mi avvicinavo. La seguii così a lungo e mi spinsi così lontano, che infine vidi una luce che assomigliava a una stella. Continuai ad avanzare verso quella luce, perdendola qualche volta di vista, secondo gli ostacoli che me la nascondevano, ma ritrovandola sempre; e, alla fine, scoprii che veniva da una breccia nella roccia, abbastanza larga da potervi passare. A questa scoperta mi fermai un po' per rimettermi dallo stato di turbamento nel quale avevo proceduto; poi, dopo essermi spinto fino alla breccia, vi passai e mi trovai in riva al mare. Immaginate l'eccesso della mia gioia: fu tale che feci fatica a convincermi che non era un sogno. Quando fui convinto che si trattava di una cosa reale e quando i miei sensi si furono ristabiliti nel loro assetto ordinario, capii che la forma ansimante che avevo seguito era un animale uscito dal mare, che aveva l'abitudine di entrare nella grotta per nutrirsi di cadaveri. Esaminai la montagna e notai che era posta fra la città e il mare senza nessun sentiero di comunicazione, perché era talmente scoscesa, che la natura non l'aveva resa praticabile. Mi prosternai sulla riva per ringraziare Iddio della grazia che mi aveva fatto. Poi rientrai nella grotta, per andare a prendere del pane, e tornai a mangiarlo alla luce del giorno, con appetito migliore di quanto avessi fatto dal momento in cui mi avevano sepolto in quel posto tenebroso. Vi ritornai ancora, e andai a raccogliere a tentoni nelle bare tutti i diamanti, i rubini, le perle, i braccialetti d'oro e infine tutte le ricche stoffe che trovai a portata di mano: trasportai tutto in riva al mare. Ne feci diversi pacchi, che subito legai con le corde che erano servite a calare le bare, e di cui c'era gran quantità. Li lasciai sulla riva, aspettando una buona occasione, senza temere che la pioggia li rovinasse, perché non era la stagione. Dopo due o tre giorni, vidi una nave che era appena uscita dal porto e che passò proprio vicino al posto in cui ero io. Feci segno con la tela del mio turbante e gridai con tutta la mia forza per farmi sentire. Mi sentirono, staccarono la scialuppa per venirmi a prendere. Alle domande dei marinai, che mi chiesero per quale avventura mi trovavo in quel posto, risposi che due giorni prima mi ero salvato da un naufragio insieme con le merci che vedevano. Fortunatamente per me quelle persone, senza esaminare il posto dove mi trovavo né se quello che dicevo era verosimile, si accontentarono della mia risposta e mi accolsero con i miei colli. Arrivati a bordo, il capitano, soddisfatto in cuor suo del piacere che mi faceva e intento al comando della nave, ebbe anch'egli la bontà di accontentarsi della storia del preteso naufragio che gli dissi di aver fatto. Gli offrii qualcuna delle mia pietre, ma non volle accettarle. Passammo davanti a parecchie isole e, tra le altre, davanti all'isola delle Campane, situata a dieci giorni di rotta da quella di Serendib (1), con un vento ordinario e regolare, e a sei giorni dall'isola di Kela, dove approdammo. Qui si trovano miniere di piombo, canne d'India e ottima canfora. Il re dell'isola di Kela è ricchissimo, potentissimo, e la sua autorità è riconosciuta su tutta l'isola delle Campane, che ha un'estensione di due giorni di cammino, e i cui abitanti sono ancora così barbari da mangiare carne umana. Dopo aver fatto un gran commercio in quell'isola, ci rimettemmo in viaggio e approdammo in parecchi altri porti. Infine arrivai felicemente a Bagdad, con infinite ricchezze che è inutile elencarvi. Per rendere grazie a Dio dei favori che mi aveva fatto, feci grandi elemosine, sia per la manutenzione di parecchie moschee sia per la sussistenza dei poveri, e mi dedicai completamente ai parenti e agli amici, divertendomi e banchettando con loro. A questo punto, Sindbad terminò il racconto del suo quarto viaggio, che suscitò nei suoi ascoltatori ancor più ammirazione dei tre precedenti. Fece un nuovo dono di cento zecchini a Hindbad, e pregò lui e gli altri di tornare il giorno dopo alla stessa ora per pranzare insieme e ascoltare il racconto del suo quinto viaggio. Hindbad e gli altri convitati presero congedo e si ritirarono. Il giorno dopo, quando furono tutti riuniti, si misero a tavola; e, alla fine del pranzo, che non durò meno dei precedenti, Sindbad cominciò in questo modo il racconto del suo quinto viaggio.