STORIA DI SIDI NUMAN.

Principe dei credenti, - continuò Sidi Numan, - non parlo a Vostra Maestà della mia nascita: essa non è abbastanza illustre da meritare la vostra attenzione. Per quanto riguarda i beni di fortuna, i miei antenati, grazie alla loro saggia parsimonia, me ne hanno lasciati quanti potevo desiderarne per vivere da uomo onesto, senza ambizioni e senza essere a carico di nessuno. Avendo questi vantaggi, la sola cosa che potevo desiderare, per completare la mia felicità, era di trovare una moglie amabile che meritasse la mia tenerezza e che, amandomi veramente, volesse condividere la mia sorte; ma Dio non ha voluto concedermela: anzi, me ne ha data una che, fin dal giorno dopo le nozze, ha cominciato a mettere a dura prova la mia pazienza in un modo che può essere capito solo da quelli che hanno dovuto subire una simile prova. Poiché la consuetudine vuole che i matrimoni si facciano senza vedere e senza conoscere le donne che dobbiamo sposare, Vostra Maestà non ignora che un marito non può lamentarsi, quando riscontra che la moglie toccatagli in sorte non è brutta da fare orrore, non è deforme, e che i buoni costumi, l'intelligenza e la buona condotta compensano qualche piccolo difetto del corpo che lei può avere. La prima volta in cui vidi mia moglie a viso scoperto, dopo che l'ebbero portata da me con le cerimonie usuali, mi rallegrai di vedere che non mi avevano ingannato nel descrivermi la sua bellezza; la giudicai di mio gradimento e mi piacque. Il giorno dopo le nostre nozze ci servirono un pranzo di parecchie portate: andai dove era apparecchiata la tavola; e, non vedendo mia moglie, la feci chiamare. Dopo avermi fatto aspettare a lungo, ella arrivò. Nascosi la mia impazienza e ci mettemmo a tavola. Cominciai dal riso, prendendolo come al solito con un cucchiaio. Mia moglie, però, invece di servirsi come fanno tutti di un cucchiaio, tirò fuori da un astuccio che aveva in tasca una specie di pulisciorecchie, con il quale cominciò a prendere il riso e portarselo alla bocca chicco per chicco, infatti esso non poteva contenerne di più. Stupito da questo modo di mangiare, le dissi: - Amina, (era questo il suo nome), avete imparato nella vostra famiglia a mangiare il riso in questo modo? Fate così perché mangiate poco, oppure perché volete contarne i chicchi, per mangiarne sempre la stessa quantità? Se lo fate per economia e per insegnarmi a non essere spendaccione, non avete niente da temere da questo lato; e posso garantirvi che non ci rovineremo mai per questo. Noi abbiamo, per grazia di Dio, di che vivere agiatamente senza privarci del necessario. Non contenetevi inutilmente, mia cara Amina, e mangiate come faccio io. Il tono affabile con il quale le facevo queste rimostranze sembrava dovesse attirarmi una risposta cortese; ma, senza dirmi una sola parola, continuò a mangiare sempre nello stesso modo, e per farmi maggior dispiacere mangiò i chicchi di riso soltanto ogni tanto; e, invece di mangiare altri cibi con me, si accontentò di portarsi raramente alla bocca un po' di pane sbriciolato, all'incirca quanto avrebbe potuto mangiarne un passero. La sua ostinazione mi scandalizzò. Tuttavia, per farle piacere e per scusarla, immaginai che non fosse abituata a mangiare con gli uomini e ancor meno con un marito, davanti al quale le avevano forse insegnato che doveva mantenere un ritegno che lei spingeva troppo oltre per ingenuità. Pensai poi che avesse già fatto colazione, e, se non l'aveva fatta, che si contenesse per mangiare liberamente da sola. Queste considerazioni mi impedirono di dirle altro che potesse impaurirla o darle qualche motivo di scontento. Dopo pranzo, me ne andai come se non mi avesse dato motivo di essere insoddisfattissimo dei suoi modi singolari, e la lasciai sola. La sera, a cena, fu la stessa cosa; il giorno dopo e tutte le volte che mangiammo insieme, si comportò nello stesso modo. Capivo bene che non era possibile che una donna potesse vivere con il poco cibo che lei mangiava, e doveva esserci sotto qualche mistero a me sconosciuto. Questo mi fece decidere di fingere. Finsi di non fare attenzione al suo comportamento, sperando che con il tempo si sarebbe abituata a vivere con me come io desideravo; ma la mia speranza era vana, e non ci volle molto a convincermene. Una notte in cui Amina mi credeva profondamente addormentato, si alzò piano piano, e vidi che si vestiva con molte precauzioni per non far rumore, temendo di svegliarmi. Non riuscivo a capire per quale ragione interrompesse così il suo riposo; e la curiosità di sapere che cosa volesse fare mi spinse a fingere un sonno profondo. Ella finì di vestirsi e, un attimo dopo, uscì dalla camera senza fare il minimo rumore. Appena fu uscita, mi alzai e mi misi il mantello sulle spalle; ebbi il tempo di vedere, da una finestra che dava sul cortile, che lei apriva la porta di strada e usciva. Corsi subito alla porta, che lei aveva lasciata socchiusa, e, con il favore della luna, la seguii finché la vidi entrare in un cimitero che era vicino alla nostra casa. Allora, salii in cima a un muro del cimitero, e dopo aver preso le mie precauzioni per non essere visto, vidi Amina con un gula (1). Vostra Maestà non ignora che le gule dell'uno e dell'altro sesso sono dei demoni erranti nelle campagne. Essi abitano di solito nei palazzi in rovina, da dove si gettano di sorpresa sui passanti, uccidendoli e mangiando la loro carne. In mancanza di passanti essi vanno, di notte, nei cimiteri, a pascersi della carne dei morti che essi dissotterrano. Fui spaventosamente stupito vedendo mia moglie con questa gula. Esse disotterrarono un morto che era stato sepolto quello stesso giorno, e la gula ne tagliò dei pezzi di carne, a più riprese, e li mangiarono insieme, sedute sull'orlo della fossa. Chiacchieravano molto tranquillamente, mentre consumavano un pasto tanto crudele e tanto inumano; ma io ero troppo lontano e non mi fu possibile capire niente della loro conversazione, che doveva essere strana come il loro pasto, il cui ricordo mi fa fremere ancora. Quando ebbero finito quell'orribile pasto, gettarono il resto del cadavere nella fossa e la riempirono con la terra che ne avevano tolta. Le lasciai fare e raggiunsi in fretta la nostra casa. Entrando, lasciai la porta di strada socchiusa, come l'avevo trovata; e, dopo essere rientrato nella mia camera, mi coricai e feci finta di dormire. Amina rientrò poco dopo senza far rumore; si spogliò e si coricò in silenzio, contenta, come immaginavo, di essere riuscita nel suo scopo senza che io me ne fossi accorto. Con il pensiero fisso a un'azione tanto barbara e tanto abominevole come quella a cui avevo assistito, e con la ripugnanza che sentivo vedendomi coricato accanto a colei che l'aveva commessa, impiegai molto tempo a riaddormentarmi. Tuttavia dormii; ma di un sonno così leggero, che il primo richiamo alla preghiera pubblica dell'alba mi svegliò. Mi vestii e andai alla moschea. Dopo la preghiera, uscii fuori città e passai la mattinata a passeggiare nei giardini e a pensare alla decisione da prendere per costringere mia moglie a cambiare vita. Scartai tutte le risoluzioni violente che mi venivano in mente e decisi di ricorrere soltanto alla dolcezza, per allontanarla dalla sua orribile inclinazione. Questi pensieri mi portarono a poco a poco a casa, dove rientrai proprio all'ora di pranzo. Appena Amina mi vide, fece servire e ci mettemmo a tavola. Vedendo che insisteva sempre a mangiare il riso chicco per chicco, le dissi con tutta la calma possibile: - Amina, voi sapete quale fu il mio stupore, il giorno dopo le nostre nozze, quando vidi che mangiavate il riso soltanto in così piccola quantità e in un modo che avrebbe offeso ogni altro marito al mio posto; sapete anche che mi accontentai di farvi notare il dispiacere che questo mi causava, pregandovi di mangiare anche gli altri cibi che ci vengono serviti e che si ha cura di cucinare in diversi modi, per cercare di renderli di vostro gusto. Da allora avete visto la nostra tavola imbandita sempre nello stesso modo, a parte il cambiamento di qualche portata per non mangiare sempre le stesse cose. Tuttavia le mie rimostranze sono state inutili, e fino a oggi avete continuato a comportarvi nella stessa maniera e a darmi lo stesso dolore. Ho mantenuto il silenzio perché non ho voluto costringervi, e mi dispiacerebbe se quello che ora vi sto dicendo potesse minimamente addolorarvi; ma, Amina, ditemi, ve ne scongiuro: le carni che ci servono qui non valgono più della carne di morto? Avevo appena finito di pronunciare queste ultime parole, quando Amina, che capì benissimo che l'avevo osservata durante la notte, fu presa da un furore che supera l'immaginazione: il viso le si infiammò, gli occhi le uscirono quasi dalle orbite, e schiumò di rabbia. L'orribile stato in cui la vedevo mi riempì di spavento: restai come immobile e nell'impossibilità di difendermi dall'orribile malvagità che lei meditava contro di me e che stupirà la Maestà Vostra. Al colmo della sua furia, prese un vaso d'acqua che trovò a portata di mano; vi immerse le dita, borbottando tra i denti qualche parola che non capii, e, gettandomi l'acqua sul viso, mi disse in tono furioso: - Sciagurato! ricevi la punizione per la tua curiosità e diventa cane. Appena Amina, che non sapevo ancora che fosse una maga, ebbe vomitato queste diaboliche parole, mi vidi improvvisamente trasformato in cane. Lo stupore e la meraviglia in cui mi trovavo per un cambiamento così repentino e così inatteso mi impedirono di pensare subito alla fuga, il che le diede il tempo di prendere un bastone per maltrattarmi. Infatti mi appioppò delle bastonate tanto forti, che non so come non restai morto sul colpo. Pensai di sfuggire alla sua rabbia rifugiandomi nel cortile; ma lei mi inseguì con lo stesso furore e, nonostante tutta l'agilità di cui potevo servirmi correndo qua e là per evitarle, non fui abbastanza abile da schivarle e dovetti subirne molte altre. Stanca infine di colpirmi e d'inseguirmi, e disperata per non avermi ammazzato com'era suo desiderio, escogitò un nuovo mezzo per riuscirvi: dischiuse la porta di strada con lo scopo di schiacciarmi nel momento in cui sarei passato per fuggire. Sebbene fossi cane, intuii il suo terribile piano; e poiché il pericolo imminente spesso dà l'ispirazione per salvarsi, osservando il suo comportamento e le sue mosse, scesi così bene il momento opportuno da eludere la sua attenzione e passare così velocemente, da riuscire a salvarmi la vita e a sfuggire alla sua malvagità: me la cavai con una lieve acciaccatura alla punta della coda. Il dolore che sentii mi fece tuttavia gridare e abbaiare mentre correvo lungo la strada, il che attirò su di me alcuni cani, che mi morsero. Per evitare il loro inseguimento, mi lanciai nella bottega di un venditore di teste, lingue e zampe di montone, dove trovai scampo. Il mio ospite prese dapprima le mie parti con molta compassione, scacciando i cani che mi inseguivano e volevano entrare fino a casa sua. Quanto a me, il mio primo pensiero fu quello di ficcarmi in un angoletto, sottraendomi al loro sguardo. Tuttavia non trovai dal mercante l'asilo e la protezione che avevo sperato. Era uno di quei superstiziosi a oltranza che, col pretesto che i cani sono sporchi, non trovano acqua e sapone che basti per lavarsi l'abito quando per caso un cane li ha toccati passando vicino a loro. Quando i cani che mi avevano dato la caccia si furono allontanati, egli fece tutto il possibile, a più riprese, per scacciarmi quello stesso giorno; ma io ero nascosto e fuori tiro. Perciò, suo malgrado, passai la notte nella sua bottega, e avevo bisogno di questo riposo per rimettermi dai maltrattamenti che Amina mi aveva riservato. Per non annoiare Vostra Maestà con particolari di poca importanza non mi soffermerò a dirvi le tristi riflessioni che feci allora sulla mia metamorfosi, vi farò solo notare che, il giorno dopo, il mio ospite uscì all'alba per fare la spesa e tornò carico di teste, lingue e zampe di montone. Quindi, dopo che ebbe aperto la sua bottega, mentre metteva in mostra la mercanzia, io uscii dal mio angolino, e me la stavo filando, quando vidi parecchi cani del vicinato, attirati dall'odore delle carni, raccolti intorno alla bottega del mio ospite, in attesa che gettasse loro qualcosa; mi mescolai a loro, in atteggiamento supplichevole. Il mio ospite, così almeno mi sembrò, in considerazione del fatto che non avevo mangiato dal momento in cui mi ero rifugiato da lui, mi trattò meglio gettandomi pezzi più grossi e più di frequente che agli altri cani. Quando ebbe finito le sue elargizioni, provai a rientrare nella sua bottega, guardandolo e scodinzolando in maniera da potergli dimostrare che lo supplicavo di farmi ancora questo favore; ma egli fu inflessibile e si oppose al mio piano, con il bastone in mano e con un'aria così spietata, che fui costretto ad allontanarmi. A qualche isolato di distanza, mi fermai davanti alla bottega di un fornaio che, contrariamente al venditore di teste di montone, che era divorato dalla malinconia, mi sembrò un uomo allegro e di buon umore, e in effetti lo era. Stava facendo colazione; e, anche se non gli avevo dato nessun segno di aver bisogno di mangiare, egli non tralasciò tuttavia di gettarmi un pezzo di pane. Prima di buttarmici su con avidità, come fanno gli altri cani, lo guardai con un cenno del capo e agitando la coda per manifestargli la mia riconoscenza. Egli mi fu grato di questa specie di cortesia, e sorrise. Non avevo bisogno di mangiare; tuttavia, per compiacerlo, presi il pezzo di pane e lo mangiai piuttosto lentamente per fargli capire che lo facevo per educazione. Egli notò tutto questo e consentì che mi fermassi accanto alla sua bottega. Vi restai accucciato e rivolto verso la strada per manifestargli che, per il momento, gli chiedevo solo la sua protezione. Egli me l'accordò e mi fece persino delle carezze, che mi diedero la certezza che avrei potuto introdurmi in casa sua. Lo feci in modo da fargli capire che lo avrei fatto solo con il suo permesso. Egli non si oppose: anzi, mi indicò un posto dove potevo sistemarmi senza dargli fastidio, e io presi possesso del posto, che conservai per tutto il tempo in cui restai da lui. Fui sempre trattato benissimo, e non faceva colazione, non pranzava e non cenava mai senza che io avessi la mia parte a sufficienza. Quanto a me, avevo per lui tutta la devozione e tutta la fedeltà che poteva aspettarsi dalla mia riconoscenza. Avevo sempre gli occhi fissi su di lui, ed non faceva un passo in casa senza che io non gli stessi accanto per seguirlo. Facevo lo stesso quando il tempo gli permetteva di fare qualche giro in città per i suoi affari. Ero tanto più attento a comportarmi così in quanto mi ero accorto che la mia devozione gli faceva piacere, e che spesso, quando doveva uscire, senza che io me ne fossi accorto, egli mi chiamava col nome di "Rubicondo" che mi aveva dato. A questo nome, subito mi slanciavo dal mio posto in strada, saltavo, facevo piroette e corse davanti alla porta. Non smettevo tutte queste moine finché egli usciva; allora lo accompagnavo con molta precisione, seguendolo o correndo davanti a lui, guardandolo di tanto in tanto per dimostrargli la mia gioia. Ero già da molto tempo in quella casa, quando un giorno venne una donna a comprare del pane. Pagandolo al mio ospite, gli diede una moneta d'argento falsa insieme con altre buone. Il fornaio, che si accorse della moneta falsa, la restituì alla donna, chiedendogliene un'altra. La donna non volle riprenderla pretendendo che era buona. Il mio ospite sostenne il contrario; e, durante la contestazione, disse alla donna: - La moneta è così visibilmente falsa, che sono sicuro che anche il mio cane, che è solo una bestia, se ne accorgerebbe. Vieni qua, Rubicondo, - disse subito chiamandomi. Alla sua voce, saltai agilmente sul banco; e il fornaio, buttando le monete davanti a me, aggiunse: - Guarda, non c'è lì una moneta falsa? Io guardo tutte le monete e, mettendo la zampa sulla falsa, la separo dalle altre guardando il mio padrone, come per indicargliela. Il fornaio, che si era rimesso al mio giudizio tanto per fare e per divertirsi, fu sommamente stupito vedendo che l'avevo azzeccata così bene senza esitare. La donna, sapendo che la sua moneta era falsa, non ebbe niente da dire e fu costretta a sostituirla con un'altra. Appena fu andata via, il mio padrone chiamò i vicini e decantò la mia capacità, raccontando quello che era successo. I vicini vollero fare la prova; e, fra tutte le monete false che mi mostrarono, mescolate ad altre di buona lega, non ce ne fu una sulla quale non mettessi la zampa e che non separassi da quelle buone. La donna, da parte sua, non mancò di raccontare a tutti i conoscenti che incontrò per la strada quello che le era capitato. La voce della mia abilità nel riconoscere le monete false si diffuse in poco tempo, non soltanto nel vicinato, ma anche in tutto il quartiere, e a poco a poco in tutta la città. Non ero mai disoccupato durante l'intera giornata: bisognava accontentare tutti quelli che venivano a comprare il pane dal mio padrone, mostrando loro ciò che sapevo fare. Ero un'attrazione per tutti, e venivano dai quartieri più lontani della città per mettere alla prova la mia abilità. La mia reputazione procurò al mio padrone tanti clienti che a fatica riusciva ad accontentarli. Questo durò a lungo, e il mio padrone non poté fare a meno di confessare ai suoi vicini e ai suoi amici che io ero un tesoro per lui. La mia abilità non mancò di attirargli degli invidiosi. Furono tese insidie per rubarmi, e lui era costretto a non perdermi mai di vista. Un giorno una donna, richiamata da questa novità, venne a comprare del pane come gli altri. Il mio posto abituale era allora sul banco; lei gettò sei monete d'argento davanti a me, tra le quali ce n'era una falsa. Io la separai dalle altre; e, mettendo la zampa sulla moneta falsa, guardai la donna come per chiederle se avessi indovinato. - Sì, - mi disse la donna, guardandomi a sua volta, - è quella falsa, non ti sei ingannato. Continuò a lungo a guardarmi e a considerarmi con ammirazione mentre io la guardavo a mia volta. Pagò il pane che aveva comprato; e, quando volle andarsene, mi fece cenno di seguirla senza farsi vedere dal fornaio. Io ero sempre attento per trovare un mezzo di liberarmi da una metamorfosi così strana com'era la mia. Avevo notato con quanta attenzione la donna mi aveva guardato. Pensai che avesse forse capito qualcosa del mio infortunio e dell'infelice stato in cui ero ridotto, e non mi ingannavo. Tuttavia la lasciai andare via e mi accontentai di guardarla. Dopo aver fatto qualche passo, lei si girò e, vedendo che mi accontentavo di guardarla senza lasciare il mio posto, mi fece ancora cenno di seguirla. Allora, senza pensarci oltre, vedendo che il fornaio era intento a pulire il suo forno per cuocervi dell'altro pane, e che non faceva attenzione a me, saltai giù dal banco e seguii la donna, che mi sembrò esserne contentissima. Dopo poca strada, arrivò a casa sua. Aprì la porta; e, quando fu entrata, mi disse: - Entra, non ti pentirai di avermi seguita. Ma una volta dentro, chiuse la porta e mi portò in camera sua, dove vidi una giovane damigella di grande bellezza intenta a ricamare. Era della figlia della caritatevole donna che mi aveva portato lì, abile ed esperta nell'arte magica, come ben presto venni a sapere. - Figlia mia, - le disse la madre, - vi porto il celebre cane del fornaio, che sa distinguere così bene le monete false da quelle buone. Vi ho detto ciò che ne pensavo fin dalle prime voci che si diffusero, dichiarandovi che poteva benissimo trattarsi di un uomo trasformato in cane per qualche malvagità. Oggi ho pensato di andare a comprare del pane da quel fornaio. Sono stata testimone della verità di quanto dicono in giro, e sono riuscita a farmi seguire da questo cane così raro, che costituisce la meraviglia di Bagdad. Che ne dite, figlia mia? Mi sono ingannata nella mia supposizione? - Non vi siete ingannata, madre mia, - rispose la figlia; - ora ve lo dimostrerò. La fanciulla si alzò, prese un vaso pieno d'acqua e vi immerse la mano; e, gettandomi addosso un po' di quell'acqua, disse: - Se sei nato cane, resta cane; ma se sei nato uomo, riprendi la forma di uomo, grazie alla virtù di quest'acqua. L'incantesimo fu rotto immediatamente; persi l'aspetto di cane, e tornai uomo come prima. Con il cuore pieno di riconoscenza per un così grande beneficio, mi gettai ai piedi della fanciulla; e, dopo averle baciato l'orlo della veste, le dissi: - Mia cara liberatrice, sento vivamente la grande bontà senza pari che avete dimostrato per uno sconosciuto come me, che vi supplica di dirgli voi stessa che cosa può fare per manifestarvi degnamente la sua riconoscenza: o piuttosto disponete di me come di uno schiavo che vi appartiene a giusto titolo; io non appartengo più a me, ma a voi; e, per farvi conoscere colui che vi sarà devoto in eterno, vi racconterò la mia storia in poche parole. Allora, dopo averle detto chi ero, le parlai del mio matrimonio con Amina, della mia bontà e della mia pazienza nel sopportare il suo umore, delle sue maniere così straordinarie e del modo indegno in cui mi aveva trattato, con una inconcepibile malvagità, e finii ringraziando la madre dell'inesprimibile felicità che mi aveva procurato. - Sidi Numan, - mi disse la fanciulla, - non parliamo della gratitudine che dite di dovermi: la sola coscienza di aver fatto un piacere a un onest'uomo come voi basta a sostituire ogni gratitudine. Parliamo di vostra moglie Amina: io l'ho conosciuta prima del vostro matrimonio; e, come io sapevo che era maga, anche lei non ignorava che io avevo qualche nozione della stessa arte, poiché avevamo preso lezione dalla stessa maestra. Ci incontravamo anche spesso al bagno. Ma, poiché i nostri caratteri non si accordavano, avevo gran cura di evitare ogni occasione di aver rapporti con lei; il che mi è stato tanto più facile in quanto, per le stesse ragioni, lei evitava a sua volta di averne con me. La sua malvagità non mi stupisce, dunque. Per tornare a ciò che vi riguarda, quello che ho fatto per voi non basta: voglio portare a termine ciò che ho cominciato. Infatti non è abbastanza aver spezzato l'incantesimo con il quale vi aveva così malvagiamente escluso dal consorzio umano: dovete punirla come merita, rientrando in casa vostra per riprendervi l'autorità che vi appartiene, e io voglio offrirvene il mezzo. Restate con mia madre, tornerò tra poco. La mia liberatrice entrò in uno stanzino; e mentre stava lì, io ebbi il tempo di testimoniare ancora una volta a sua madre quanto fossi grato a lei e alla figlia. - Mia figlia, - mi disse la donna, - come vedete, non è meno abile di Amina nell'arte magica, ma lei ne fa un così buon uso, che vi stupireste sapendo tutto il bene che ha fatto e che fa, quasi ogni giorno, grazie alla sua esperienza. Perciò l'ho lasciata fare e continuo a lasciarla fare. Se mi accorgessi che lei dovesse abusare minimamente della sua arte, non lo sopporterei. La madre aveva cominciato a raccontarmi qualcuna delle meraviglie delle quali era stata testimone, quando la figlia rientrò con una bottiglietta in mano. - Sidi Numan, - mi disse, - i miei libri, che sono andata a consultare, mi rivelano che Amina in questo momento non è in casa vostra ma deve tornarvi fra poco. Mi rivelano anche che l'ipocrita donna finge con i vostri domestici di essere profondamente inquieta per la vostra assenza, e ha dato a intendere che, mentre pranzava con voi, vi siete ricordato di un affare che vi aveva costretto a uscire senza indugio; che, uscendo, avete lasciato la porta aperta, e che un cane era entrato fino alla sala dove lei stava finendo di pranzare, e che lei lo aveva scacciato a furia di legnate. Ritornate dunque a casa vostra senza perder tempo, portando questa bottiglietta che vi metto fra le mani. Quando vi avranno aperto, aspettate il ritorno di Amina in camera vostra: non vi farà attendere a lungo. Appena sarà entrata, scendete nel cortile, e presentatevi a lei a faccia a faccia. Sorpresa come sarà rivedendovi contro la sua aspettativa, vi girerà la schiena per fuggire; allora gettatele addosso un po' d'acqua di questa bottiglia, che terrete pronta; e, gettandogliela, pronunciate baldanzosamente queste parole: "Ecco il castigo della tua malvagità". Non vi dico altro: ne vedrete presto l'effetto. Dopo queste parole della mia benefattrice, che m'impressi bene nella memoria, dato che niente mi tratteneva più, mi congedai da lei e dalla madre con tutte le manifestazioni della più completa riconoscenza, affermando con sincerità che mi sarei ricordato in eterno della gratitudine che dovevo loro, e me ne tornai a casa mia. Le cose si svolsero come la giovane maga aveva predetto. Amina non stette molto a rincasare. Mentre camminava, mi presentai a lei con l'acqua in mano, pronto a gettargliela addosso. Lei strillò forte; e, appena si fu girata per raggiungere di nuovo la porta, le gettai addosso l'acqua pronunciando le parole insegnatemi dalla giovane maga; e subito fu trasformata in una cavalla, quella che Vostra Maestà ha visto ieri. Approfittando del suo stupore, subito l'afferrai per la criniera, e, nonostante la sua resistenza, la trascinai nella mia scuderia. Le passai una cavezza intorno al collo e, dopo averla legata rimproverandole il suo crimine e la sua malvagità, la punii con violente frustate, così a lungo che alla fine la stanchezza mi costrinse a desistere; ma mi ripromisi d'infliggerle ogni giorno lo stesso castigo. Principe dei credenti, - aggiunse Sidi Numan finendo la sua storia, - oso sperare che Vostra Maestà non disapproverà il mio comportamento, e che riterrà che una donna così cattiva e così malvagia è trattata con maggiore indulgenza di quanto non meriti. Quando il califfo vide che Sidi Numan non aveva più niente da dire: - La tua storia è singolare, - gli disse, - e la cattiveria di tua moglie è imperdonabile. Perciò non condanno del tutto la punizione che le hai inflitto fino ad ora. Ma voglio che tu consideri quanto grande è il suo supplizio per essere stata ridotta alla condizione delle bestie, e spero che tu ti accontenti di lasciarle fare la sua penitenza in questo stato. Ti ordinerei anche di andare dalla giovane maga che l'ha trasformata in questo modo per farle rompere l'incantesimo, se l'ostinazione e l'incorreggibile durezza dei maghi e delle maghe che abusano della loro arte non mi fosse nota, e se non temessi per te un effetto della sua vendetta più crudele del primo. Il califfo, mite per natura e portato alla compassione verso quelli che soffrono anche se lo meritano, dopo aver dichiarato la sua volontà a Sidi Numan, si rivolse al terzo uomo che il gran visir Giafar aveva fatto venire. - Cogia Hassan, - gli disse, - passando ieri davanti al tuo palazzo, esso mi sembrò così magnifico, che mi è venuta la curiosità di sapere a chi appartenesse. Ho saputo che lo avevi fatto costruire dopo aver esercitato un mestiere che a fatica ti procurava il necessario per vivere. Mi dicono anche che non rinneghi la tua origine, che fai buon uso delle ricchezze che Dio ti ha concesso, e che i tuoi vicini dicono un gran bene di te. Tutto questo mi ha fatto piacere, - aggiunse il califfo, - e sono convinto che le vie scelte dalla provvidenza per elargirti i suoi doni devono essere straordinarie. Sono curioso di conoscerle direttamente da te, e ti ho fatto venire proprio per soddisfare la mia curiosità. Parlami dunque sinceramente, affinché io mi rallegri prendendo parte alla tua felicità con maggiore consapevolezza. E, affinché la mia curiosità non ti insospettisca, e tu non creda che io vi abbia altro interesse tranne quello che ora ti ho detto, ti dichiaro che, ben lungi dall'avere nessuna pretesa sulle tue ricchezze, ti offro la mia protezione per fartele godere in tutta sicurezza. Dopo queste assicurazioni del califfo, Cogia Hassan si prosternò davanti al trono, batté la fronte sul tappeto che lo ricopriva e, dopo essersi rialzato, disse: - Principe dei credenti, ogni altro al mio posto, che non avesse la coscienza pura e netta come la mia, avrebbe potuto turbarsi ricevendo l'ordine di venire a presentarsi al trono della Maestà Vostra; ma poiché ho sempre avuto per voi soltanto dei sentimenti di rispetto e di venerazione e non ho fatto niente contro l'ubbidienza che vi devo né contro le leggi, che abbia potuto attirarmi la vostra indignazione, la sola cosa che mi abbia addolorato è il timore che mi ha preso di non poterne sostenere lo splendore. Tuttavia, la fama della bontà con la quale Vostra Maestà riceve e ascolta il più infimo dei suoi sudditi mi ha rassicurato e non ho dubitato che voi stesso mi avreste dato il coraggio e la fiducia di procurarvi la soddisfazione che potreste esigere da me. E' proprio questo, Principe dei credenti, quello che Vostra Maestà mi ha fatto conoscere, accordandomi un'alta protezione, senza sapere se la merito. Spero tuttavia che continuerete ad avere per me la stessa benevolenza, quando, per ubbidire al vostro ordine, vi avrò raccontato le mie avventure. Dopo questo breve complimento per accattivarsi la benevolenza e l'attenzione del califfo, e dopo aver riflettuto per qualche momento su quello che doveva dire, Cogia Hassan riprese a parlare in questi termini.