STORIA DI NUREDDIN E DELLA BELLA PERSIANA.

La città di Bassora fu per molto tempo la capitale di un regno tributario dei califfi. Il re che la governava al tempo del califfo Harun-al-Rashid si chiamava Zineby, ed era suo cugino essendo essi figli di due fratelli. Zineby non aveva ritenuto opportuno affidare l'amministrazione dei suoi Stati a un solo visir, ne aveva scelti due: Khacan e Sauy. Khacan era mite, previdente, liberale, e godeva nell'aiutare chi aveva bisogno di lui, per tutto quanto dipendeva dal suo potere, però mai a danno della giustizia che era costretto ad amministrare. Allo stesso modo, non c'era nessuno alla corte di Bassora, né in città, né in tutto il regno che non lo rispettasse e non gli tributasse le lodi che meritava. Sauy aveva tutt'altro tipo di carattere: era sempre amareggiato e scoraggiava allo stesso modo tutti, senza distinzione di grado o di condizione. Oltre a ciò, ben lungi dal crearsi meriti con le grandi ricchezze che possedeva, era di un'avarizia estrema, fino al punto di privarsi lui stesso del necessario. Nessuno poteva sopportarlo, e di lui si era sentito dire soltanto male. La cosa che lo rendeva più odioso era la grande avversione che egli nutriva contro Khacan e il fatto che, interpretando male tutto il bene che faceva quel degno ministro, egli cercava continuamente di metterlo in cattiva luce presso il re. Un giorno, dopo il consiglio, il re di Bassora si ritemprava lo spirito intrattenendosi con i suoi due visir e con parecchi altri membri del consiglio. La conversazione cadde sulle schiave che, da noi, si comprano e si considerano quasi allo stesso modo delle mogli legittime. Alcuni pretendevano che era sufficiente che una schiava fosse bella e ben fatta per consolarsi delle mogli che si è costretti a sposare per ragioni di parentela o per interesse di famiglia e che non sempre sono dotate di una grande bellezza né delle altre doti del corpo. Altri sostenevano, e Khacan era di questa opinione, che la bellezza e tutte le belle qualità del corpo non sono le sole cose da ricercarsi in una schiava, ma che questi attributi devono essere accompagnati da molto spirito, da virtù, modestia, grazia e, se possibile, da una bella cultura. A giustificazione di questo dicevano che niente conviene di più a uomini che amministrano affari importanti che trovare, tornando a casa, dopo aver passato tutta la giornata in un'occupazione così faticosa, una donna la cui compagnia sia nello stesso tempo utile, piacevole e divertente. Perché insomma, aggiungevano, non ci sarebbe nessuna differenza fra noi e le bestie se avessimo una schiava semplicemente per vederla e soddisfare un istinto che abbiamo in comune con le bestie. Il re si schierò con questi ultimi, e lo fece capire ordinando a Khacan di comprargli una schiava che fosse perfetta per bellezza, che avesse tutte le belle qualità di cui si era parlato e, soprattutto, che fosse molto colta. Sauy, geloso dell'onore che il re faceva a Khacan, e che era stato di diverso parere, disse: - Sire, sarà molto difficile trovare una schiava così perfetta come Vostra Maestà richiede. E se si trova, cosa che stento a credere, la pagherete a buon prezzo se vi costerà soltanto diecimila monete d'oro. - Sauy, - rispose il re, - a quanto vedo considerate la somma troppo alta: forse lo è per voi, ma non lo è per me. Nello stesso tempo, il re ordinò al suo gran tesoriere, che era presente, di mandare le diecimila monete d'oro a casa di Khacan. Non appena fu tornato a casa, Khacan fece chiamare tutti i mediatori che si occupavano della vendita delle donne e delle fanciulle schiave, e li incaricò di venire ad avvertirlo quando ne avessero trovata una come quella che descrisse loro. I mediatori, sia per far piacere a Khacan sia per il loro proprio interesse, gli promisero che avrebbero fatto del loro meglio per trovarne una come egli voleva. Non passò giorno senza che gliene portassero qualcuna, ma lui vi trovava sempre qualche difetto. Un giorno, di buon mattino, mentre Khacan andava al palazzo del re, un mediatore si avvicinò con una grande fretta alla staffa del suo cavallo e gli annunciò che un mercante persiano, arrivato il giorno prima, molto tardi, vendeva una schiava di perfetta bellezza. superiore a tutte quelle che egli poteva aver visto. - Quanto al suo ingegno e alla sua cultura, - aggiunse, - il mercante garantisce che può tener testa a tutte le belle menti e ai sapienti del mondo. Khacan, felice di questa notizia, che gli faceva sperare di avere un buon motivo per andare a rendere omaggio al re, gli disse di portargli la schiava al suo ritorno da palazzo, e continuò il suo cammino. Il mediatore non mancò di trovarsi in casa del visir all'ora indicatagli; e Khacan giudicò la schiava di una bellezza così superiore alle sue aspettative che, da quel momento, le diede il nome di "bella Persiana". Poiché egli aveva un grande ingegno ed era molto colto, dalla conversazione che ebbe con la schiava capì presto che sarebbe stato inutile cercarne un'altra che la superasse in alcuno dei pregi che il re richiedeva. Chiese al mediatore a che prezzo la vendeva il mercante persiano. - Signore, - rispose il mediatore, - il mercante è un uomo che ha una sola parola: egli afferma che non può darla, come ultimo prezzo, a meno di diecimila monete d'oro. Mi ha anche giurato che, senza contare le sue cure, le sue fatiche e il tempo dedicato ad allevarla, ha sostenuto per lei quasi la stessa spesa, sia in maestri per gli esercizi del corpo e per istruirla e formarle la mente, sia in abiti e in cibo. Poiché appena l'ebbe comprata, nella sua prima infanzia, la giudicò degna di un re, egli non ha risparmiato niente di tutto quello che poteva contribuire a farla arrivare a quest'alta condizione. Ella suona ogni tipo di strumento, canta, danza; scrive meglio dei più abili scrivani; compone versi e, infine, non c'è libro che non abbia saputo tante cose quante ne conosce lei. Il visir Khacan, che conosceva i pregi della bella Persiana molto meglio del mediatore, che ne parlava soltanto per quello che gli aveva raccontato il mercante, non volle rimandare oltre l'acquisto della schiava. Mandò uno dei suoi servi a chiamare il mercante, nel posto dove il mediatore disse che lo si sarebbe trovato. Quando il mercante persiano arrivò, il visir Khacan gli disse: - Non voglio comprare la vostra schiava per me, ma per il re; dovete vendergliela, però, a un prezzo migliore di quello che avete richiesto. - Signore, - rispose il mercante, - sarebbe un grande onore per me poterla regalare a Sua Maestà, se un mercante come me avesse la possibilità di fare doni di questo valore. Onestamente chiedo solo il denaro che ho speso per formarla e renderla così com'è. Posso affermare però che Sua Maestà avrà fatto un acquisto di cui sarà contentissimo. Il visir Khacan non volle mercanteggiare; fece pagare la somma al mercante; e il mercante, prima di ritirarsi, gli disse: - Signore, poiché la schiava è destinata al re, concedetemi l'onore di dirvi che ella è estremamente stanca del lungo viaggio che le ho fatto fare per portarla qui. Benché ella sia di una bellezza senza pari, sarà tuttavia tutt'altra cosa se la terrete in casa vostra soltanto per una quindicina di giorni e se avrete cura di farla trattare bene. Passati questi giorni, quando la presenterete al re, ella vi farà un onore e un merito di cui spero che mi sarete un po' grato. Osservate inoltre che il sole le ha un po' guastato il colorito; ma, dopo che sarà stata due o tre volte al bagno e dopo che l'avrete fatta vestire nel modo che giudicherete opportuno, sarà così cambiata che vi sembrerà infinitamente più bella. Khacan considerò buono il consiglio del mercante e decise di seguirlo. Diede alla bella Persiana un appartamento privato, vicino a quello di sua moglie, pregando quest'ultima di farla mangiare con lei e di considerarla come una dama appartenente al re. La pregò anche di farle confezionare parecchi abiti, i più splendidi possibili e che più le si addicessero. Prima di lasciare la bella Persiana, le disse: - Non potreste avere fortuna più grande di quella che io vi ho procurato. Giudicate voi stessa: vi ho comprata per il re, e spero che egli sarà molto più soddisfatto di possedervi di quanto lo sono io per aver eseguito la commissione della quale egli mi aveva incaricato. Perciò, sono ben felice di avvertirvi che ho un figlio che non manca di ingegno, ma giovane, scapestrato e intraprendente, e di guardarvi bene da lui quando vi si avvicinerà. La bella Persiana lo ringraziò del consiglio; e, dopo che gli ebbe assicurato di tenerne conto, il visir si ritirò. Nureddin, così si chiamava il figlio del visir, entrava liberamente nell'appartamento di sua madre, con la quale aveva l'abitudine di pranzare. Egli era assai ben fatto, giovane, piacente e ardito; e, poiché era molto intelligente e si esprimeva con scioltezza, aveva un dono particolare per convincere tutti quelli che voleva. Egli vide la bella Persiana; e, fin dal primo incontro con lei, sebbene avesse saputo che il padre l'aveva comprata per il re, e suo padre stesso glielo avesse dichiarato, tuttavia non fece niente per impedirsi di amarla. Si lasciò trascinare dalle grazie che immediatamente lo colpirono; e la conversazione che ebbe con lei gli fece prendere la decisione d'impiegare tutti i mezzi possibili per strapparla al re. La bella Persiana, a sua volta, giudicò Nureddin molto amabile. "Il visir mi fa un grande onore, - disse tra sé, - ad avermi comprata per il re di Bassora. Io mi considererei fortunata se si accontentasse di darmi semplicemente a suo figlio". Nureddin fu molto assiduo nell'approfittare del vantaggio che aveva di vedere liberamente una beltà di cui era tanto innamorato, d'intrattenersi, ridere e scherzare con lei. Egli non l'avrebbe mai lasciata se sua madre non ve l'avesse costretto. - Figlio mio, - lei gli diceva, - non sta bene che un giovane come voi resti sempre nell'appartamento delle donne. Andate, ritiratevi e cercate di rendervi degno di succedere un giorno alla dignità di vostro padre. Poiché la bella Persiana non era andata al bagno da molto tempo a causa del lungo viaggio che aveva fatto, cinque o sei giorni dopo essere stata comprata, la moglie del visir Khacan ebbe cura di far riscaldare espressamente per lei quello che era in casa del visir e ve la mandò con parecchie delle sue schiave, alle quali raccomandò di renderle gli stessi servigi che rendevano a lei e, all'uscita dal bagno, di farle indossare un abito di grande bellezza che le aveva già fatto confezionare. La donna ci aveva messo tanta più cura in quanto voleva farsene un merito di fronte al visir suo marito e fargli vedere l'interesse che aveva per tutto ciò che poteva fargli piacere. Uscendo dal bagno, la bella Persiana, mille volte più bella di quanto era apparsa a Khacan quando l'aveva comprata, venne a farsi vedere dalla moglie del visir, che faticò a riconoscerla. La bella Persiana le baciò la mano con grazia e le disse: - Signora, non so come giudicate che mi stia il vestito che vi siete disturbata a farmi confezionare. Le vostre schiave, che mi assicurano che mi sta così bene da rendermi irriconoscibile, sono evidentemente delle adulatrici; voglio rimettermi al vostro giudizio. Se, tuttavia, esse dicevano la verità, dovrei essere grata a voi, signora, per la grazia che esso mi conferisce. - Figlia mia, - rispose la moglie del visir con molta gioia, non dovete considerare un'adulazione quello che vi hanno detto le mie schiave; io me ne intendo più di loro; e, senza parlare del vostro abito, che vi sta a meraviglia, il bagno vi dona una bellezza così superiore a quella che avevate prima, che anch'io non vi riconoscevo più; se pensassi che il bagno fosse ancora sufficientemente benefico, ci andrei a trarne vantaggio: ormai sono in un'età tale, da averne spesso bisogno. - Signora, - riprese la bella Persiana, - non posso rispondere niente alle gentilezze che mi usate senza che io le abbia meritate. In quanto al bagno, esso è mirabile e, se avete l'intenzione di andarvi, non avete tempo da perdere. Le vostre schiave possono dirvi la stessa cosa. La moglie del visir considerò che da parecchi giorni non era andata al bagno, e volle approfittare dell'occasione. Espresse il suo desiderio alle schiave che in poco tempo prepararono tutto il necessario. La bella Persiana si ritirò nel suo appartamento; e la moglie del visir, prima di andare al bagno, ordinò a due schiavette di restare con lei non lasciando entrare Nureddin se fosse venuto. Mentre la moglie del visir Khacan era al bagno e la bella Persiana sola, arrivò Nureddin; e non trovando la madre nel suo appartamento andò in quello della bella Persiana, dove, nell'anticamera, trovò le due schiavette. Chiese loro dove fosse sua madre, ed esse risposero che era al bagno. - E la bella Persiana, - disse Nureddin, - è anche lei al bagno? - E' già tornata, - risposero le schiave, - ed è in camera sua; ma la signora vostra madre ci ha ordinato di non lasciarvi entrare. La camera della bella Persiana era chiusa solo da una portiera. Nureddin fece per entrare, e le due schiave ci si misero davanti per impedirglielo. Egli le prese entrambe per il braccio, le spinse fuori dell'anticamera e chiuse la porta. Esse corsero al bagno, lanciando alte grida, e annunciarono piangendo alla loro signora che Nureddin era entrato, loro malgrado, nella camera della bella Persiana e le aveva scacciate. La notizia di tanta insolenza causò alla buona signora una profondissima mortificazione. Interruppe il bagno e si vestì in gran fretta. Ma, prima che ella avesse finito e arrivasse alla camera della bella Persiana, Nureddin ne era già uscito ed era fuggito. La bella Persiana fu grandemente stupita vedendo entrare la moglie del visir tutta in lacrime e come se fosse fuori di sé. - Signora, - le disse, - posso osare chiedervi per quale ragione siete così afflitta? Che disgrazia vi è capitata al bagno per avervi costretta a uscirne così presto? - Che! - esclamò la moglie del visir, - mi rivolgete questa domanda con animo tranquillo, dopo che mio figlio Nureddin è entrato nella vostra camera ed è restato solo con voi! Poteva forse capitare maggiore sventura a lui e a me? - Di grazia, signora, - replicò la bella Persiana, - che sventura può significare per voi e per Nureddin quel che ha fatto Nureddin? - Come! - replicò la moglie del visir - mio marito non vi ha detto di avervi comprata per il re? e non vi aveva avvertita di badare che Nureddin non vi si avvicinasse? - Non l'ho dimenticato, signora, - rispose la bella Persiana; ma Nureddin è venuto a dirmi che il visir suo padre aveva cambiato idea e che, invece di riservarmi per il re, come ne aveva avuto l'intenzione, gli aveva fatto dono della mia persona. Io l'ho creduto, signora; e, schiava come sono, abituata alle leggi della schiavitù fin dalla più tenera infanzia, comprenderete che non ho potuto e non ho dovuto oppormi alla sua volontà. Aggiungerò anche che l'ho fatto con tanto minor ripugnanza in quanto avevo concepito una forte inclinazione per lui, grazie alla libertà che avevamo avuto di vederci. Perdo senza rimpianti la speranza di appartenere al re, e mi considererò felicissima di passare tutta la mia vita con Nureddin. A questo discorso della bella Persiana, la moglie del visir disse: - Voglia Iddio che quanto mi dite sia vero! ne sarei molto felice. Ma, credetemi, Nureddin è un impostore; vi ha ingannata, e non è possibile che suo padre gli abbia fatto il dono che vi ha detto. Com'è sventurato e come sono sventurata io! e come lo è di più suo padre per le spiacevoli conseguenze che deve temere e che noi dobbiamo temere con lui! Né i miei pianti né le mie preghiere sono capaci di piegarlo e di ottenere il suo perdono. Suo padre lo sacrificherà al suo giusto risentimento appena informato della violenza che vi ha usata. Dicendo queste parole, pianse amaramente; e le sue schiave, che non temevano meno di lei per la vita di Nureddin, seguirono il suo esempio. Il visir Khacan arrivò qualche istante dopo, e fu molto stupito vedendo la moglie e le sue schiave in lacrime e la bella Persiana molto triste. Ne chiese il motivo; e sua moglie e le schiave raddoppiarono le grida e le lacrime invece di rispondergli. Il loro silenzio lo stupì anche di più; e, rivolgendosi alla moglie, disse: - Voglio assolutamente che mi diciate perché piangete e che mi diciate la verità. La dama, sconsolata, non poté fare a meno di soddisfare suo marito. - Promettetemi, però, signore, rispose, - di non volermene per quello che vi dirò: vi assicuro subito che non ne ho colpa. Senza aspettare la sua risposta, continuò: - Mentre ero al bagno con le mie schiave, è venuto vostro figlio e ha approfittato di questo disgraziato tempo per far credere alla bella Persiana che voi non volevate più donarla al re e che l'avevate regalata a lui. Non vi dico quello che ha fatto dopo una menzogna così spudorata: ve lo lascio immaginare da solo. Ecco il motivo della mia disperazione per amor vostro e per amore di Nureddin, per il quale non oso implorare la vostra clemenza. Non è possibile esprimere la mortificazione del visir Khacan quando sentì il racconto dell'insolenza di suo figlio Nureddin. - Ah! - esclamò colpendosi crudelmente, mordendosi le mani e strappandosi la barba, - così dunque, figlio sciagurato, figlio indegno di vedere il giorno, getti tuo padre nel baratro dal più alto grado della sua fortuna, così lo rovini e rovini te stesso insieme con lui! Il re non si accontenterà del tuo sangue né del mio per vendicarsi di questa offesa che colpisce la sua stessa persona. La moglie volle provare a consolarlo. - Non affliggetevi, - gli disse; - ricaverò facilmente diecimila monete d'oro da una parte dei miei gioielli: con questo denaro potrete comprare un'altra schiava che sarà più bella e più degna del re. - Eh! voi credete, - replicò il visir, - che io sia capace di disperarmi tanto per la perdita di diecimila monete d'oro? Non si tratta di questa perdita, né di quella di tutti i miei beni, che mi colpirebbe poco. Si tratta di quella della mia felicità, che mi è più preziosa di tutti i beni del mondo. - Mi sembra, però, signore, - replicò la dama, - che ciò che si può riparare con il denaro non è di grande importanza. - E che! - disse il visir, - non sapete che Sauy è il mio mortale nemico? Credete che, appena avrà saputo questa storia, non vada a trionfare su di me presso il re? "Vostra Maestà - gli dirà, - parla sempre dell'affetto e dello zelo di Khacan per il suo servizio; però egli ha dimostrato di essere molto poco degno di tanta considerazione. Ha ricevuto diecimila monete d'oro per comprarvi una schiava. Ha veramente eseguito una commissione così onorevole, e mai nessuno ha visto una schiava così bella; ma, invece di portarla a Vostra Maestà ha ritenuto più opportuno donarla a suo figlio. 'Figlio mio, - gli ha detto, - prendete questa schiava: è per voi. La meritate più del re.' Suo figlio,continuerà Sauy con la solita malizia, - l'ha presa, e si diverte ogni giorno con lei. Le cose stanno così come ho l'onore di assicurare a Vostra Maestà; e potrete accertarvene personalmente". Non capite, - aggiunse il visir, - che, dopo un simile discorso, gli uomini del re possono venire a forzare la mia casa da un momento all'altro e a portare via la schiava? Vi aggiungo poi tutte le altre inevitabili disgrazie che seguiranno. - Signore, - rispose la dama a questo discorso del visir suo marito, - ammetto che la cattiveria di Sauy è delle più grandi, e che egli è capace di dare alla cosa la piega maligna che avete detto, se ne fosse minimamente informato. Ma né lui né nessun altro può sapere quello che succede nell'interno della vostra casa. E anche se lo sospettasse e il re ve ne parlasse, potete dirgli che, dopo aver attentamente esaminata la schiava, non l'avete giudicata così degna di Sua Maestà come vi era sembrata in un primo momento; che il mercante vi ha ingannato; che lei è, invero, di un'incomparabile bellezza ma che è ben lungi dall'essere così intelligente e così abile come ve l'avevano vantata. Il re crederà alla vostra parola, e Sauy avrà la vergogna di non essere riuscito nel suo rovinoso disegno come tante altre volte in cui ha cercato inutilmente di distruggervi. Rassicuratevi, dunque; e, se volete darmi ascolto, mandate a chiamare i mediatori; dite loro di non essere contento della bella Persiana, e incaricateli di cercarvi un'altra schiava. Questo consiglio sembrò molto ragionevole al visir Khacan: egli dunque si calmò un po' e decise di seguirlo, ma non diminuì affatto la sua collera contro il figlio Nureddin. Nureddin non si fece vivo per tutta il giorno; non osò neppure cercare asilo presso nessuno dei giovani della sua età che frequentava di solito, temendo che suo padre lo facesse cercare in casa loro. Uscì dalla città, e si rifugiò in un giardino dove non era mai stato e dove non era conosciuto. Non ritornò se non molto tardi, quando era sicuro che suo padre si fosse ritirato, e si fece aprire dalle ancelle della madre, che lo fecero entrare senza far rumore. Il giorno dopo uscì prima che il padre si alzasse; e per un intero mese fu costretto a prendere le stesse precauzioni con grande mortificazione. Infatti, le ancelle non lo illudevano: gli dissero francamente che il visir suo padre insisteva nella stessa collera e affermava che l'avrebbe ucciso se si fosse presentato davanti a lui. La moglie di questo ministro sapeva dalle sue ancelle che Nureddin ritornava ogni giorno; ma non osava pregare suo marito di perdonarlo. Finalmente lo fece. - Signore, - gli disse un giorno, - fino ad ora non ho osato prendermi la libertà di parlarvi di vostro figlio. Vi supplico di permettermi di chiedervi che cosa volete fare di lui. Un figlio non può essere più colpevole verso suo padre di quanto Nureddin lo è verso di voi. Vi ha privato di un grande onore e della soddisfazione di presentare al re una schiava così perfetta come la bella Persiana, lo ammetto; ma, insomma, qual è la vostra intenzione? Volete assolutamente rovinarlo? Invece del male al quale non dovete più pensare, ve ne attirerete un altro molto peggiore, al quale forse non pensate. Non temete che la gente, che è maligna, chiedendosi perché nostro figlio si è allontanato da noi, indovini la vera causa, che voi volete tenere così nascosta? Se questo succede, cadremo proprio nella disgrazia che avete tanto interesse di evitare. - Signora, - rispose il visir, - quello che dite è di buon senso; ma non posso decidermi a perdonare Nureddin finché non l'avrò mortificato come merita. - Egli sarà mortificato a sufficienza, - replicò la dama, quando avrete fatto quello che ho pensato nella mia testa. Vostro figlio entra qui ogni notte, dopo che voi vi siete ritirato, vi dorme ed esce prima che voi vi alziate. Questa sera aspettatelo fino al suo arrivo e fingete di volerlo uccidere: io verrò in suo aiuto; e, dichiarandogli che gli salvate la vita grazie alle mie preghiere, lo costringerete a prendere la bella Persiana alle condizioni che vorrete. Egli la ama, e so che la bella Persiana non lo detesta. Khacan accettò di seguire questo consiglio: perciò, quando Nureddin arrivò alla solita ora, prima che gli aprissero si mise dietro la porta; e, non appena gli fu aperto, si gettò su di lui e se lo mise sotto i piedi. Nureddin girò la testa e riconobbe il padre, col pugnale in mano, sul punto di ucciderlo. La madre di Nureddin arrivò in quel momento; e, trattenendo il visir per il braccio, esclamò: - Che fate, signore? - Lasciatemi, - rispose il visir, - devo uccidere questo figlio indegno. - Ah! signore, - riprese la madre, - uccidete piuttosto me: non permetterò mai che vi insanguiniate le mani del vostro proprio sangue! - Nureddin approfittò di questo momento ed esclamò con le lacrime agli occhi: - Padre mio! imploro la vostra clemenza e la vostra misericordia; accordatemi il perdono che vi chiedo, in nome di colui dal quale lo attendete, nel giorno in cui tutti saremo al suo cospetto. Khacan si lasciò strappare il pugnale dalle mani e, appena lo ebbe lasciato, Nureddin si gettò ai suoi piedi e glieli baciò per dimostrargli il suo pentimento per averlo offeso. - Nurredin, - gli disse il visir - ringraziate vostra madre, io vi perdono per riguardo a lei. Voglio anche darvi la bella Persiana, ma a condizione che mi promettiate sotto giuramento di non tenerla come schiava ma come moglie; cioè non dovrete mai venderla né ripudiarla. Poiché lei è virtuosa ed infinitamente più intelligente e prudente di voi, sono convinto che frenerà questi impeti di gioventù che sono capaci di rovinarvi. Nureddin non avrebbe osato sperare di essere trattato con tanta indulgenza. Ringraziò suo padre con tutta la riconoscenza immaginabile e gli fece di tutto cuore il giuramento che egli desiderava. La bella Persiana e lui furono contentissimi l'uno dell'altra, e il visir fu molto soddisfatto della loro felice unione. Il visir Khacan non aspettò che il re gli parlasse della commissione che gli aveva affidata; aveva molta cura di parlargliene spesso e di manifestargli le difficoltà che incontrava per eseguirla con soddisfazione di Sua Maestà. Insomma seppe agire con tanta scaltrezza, che a poco a poco il re non ci pensò più. Tuttavia Sauy aveva saputo qualcosa di ciò che era successo; ma Khacan era così tanto nelle grazie del re, che Sauy non osò parlarne. Era passato più di un anno da quando questa delicata faccenda si era risolta più felicemente di quanto il ministro avesse creduto in un primo momento, quando un giorno, mentre era al bagno, fu costretto, per un affare urgente, a uscirne ancora tutto riscaldato. L'aria, che era un po' fredda, lo colpì e gli provocò una congestione che lo costrinse a mettersi a letto con la febbre alta. La malattia si aggravò; ed egli, rendendosi conto che si avvicinava all'ultimo momento della sua vita tenne questo discorso a Nureddin che non lo abbandonava un istante: - Figlio mio, - gli disse, - non so se ho fatto il buon uso che dovevo delle grandi ricchezze che Dio mi ha donato; voi vedete che esse non mi servono a niente per liberarmi dalla morte. Sul punto di morire vi chiedo solo che vi ricordiate della promessa che mi avete fatto riguardo alla bella Persiana. Muoio contento, sicuro che non la dimenticherete. Queste parole furono le ultime che il visir Khacan pronunciò. Spirò pochi minuti dopo e lasciò un lutto inesprimibile in casa, alla corte e nella città. Il re lo rimpianse come un ministro saggio, zelante e fedele; e tutta la città lo pianse come il suo protettore e il suo benefattore. Non si erano mai visti a Bassora funerali più onorevoli. I visir, gli emiri e quasi tutti i grandi della corte ebbero la premura di portare la sua bara sulle spalle, gli uni dopo gli altri, fino al luogo della sepoltura; e i più ricchi come i più poveri della città lo accompagnarono piangendo. Nureddin manifestò tutti i segni del grande dolore che la perdita appena subita doveva causargli e rimase a lungo senza vedere nessuno. Un giorno, infine, permise che lasciassero entrare uno dei suoi amici intimi. Questi cercò di consolarlo; e, vedendolo disposto ad ascoltarlo, gli disse che, dopo aver reso alla memoria del padre tutto quello che doveva, e aver soddisfatto pienamente tutto quanto le convenienze richiedevano, era tempo che lui ricomparisse fra la gente, che vedesse i suoi amici e riprendesse il posto che la sua nascita e i suoi meriti gli avevano conferito. - Peccheremmo, - aggiunse, - contro le leggi della natura e anche contro le leggi civili se, quando i nostri padri sono morti, non riservassimo loro le onoranze che la tenerezza esige da noi, e saremmo considerati degli insensibili. Ma, una volta fatto ciò e quando non è più possibile rivolgerci nessun rimprovero, siamo obbligati a riprendere le stesse abitudini di prima e a vivere fra la gente nel modo solito. Asciugate dunque le vostre lacrime e riprendete quell'aria allegra che ha sempre ispirato la gioia dovunque vi siate trovato. Il consiglio di quest'amico era molto ragionevole; e Nureddin avrebbe evitato tutte le disgrazie che gli capitarono se l'avesse seguito puntualmente così come si richiedeva. Si lasciò convincere senza sforzo; invitò anche a cena il suo amico: e, quando questi volle ritirarsi, lo pregò di tornare il giorno dopo e di portare tre o quattro dei loro amici comuni. A poco a poco si formò un gruppo di dieci persone più o meno della sua età, ed egli passava il tempo con loro in continui banchetti e festeggiamenti. Non c'era giorno in cui non li congedasse ciascuno con un regalo. Qualche volta, per far piacere ai suoi amici, Nureddin faceva venire la bella Persiana: lei aveva la compiacenza di ubbidirgli, ma non approvava questi eccessi; ed esprimeva la sua opinione liberamente. - Non dubito, - gli diceva, - che il visir vostro padre vi abbia lasciato grandi ricchezze; ma, per grandi che possano essere, non irritatevi se una schiava vi fa notare che, se continuate a condurre questa vita, ne vedrete ben presto la fine. Qualche volta si possono offrire banchetti agli amici e divertirsi con loro; ma farne un'abitudine giornaliera significa seguire la strada maestra dell'estrema miseria. Per il vostro onore e la vostra reputazione fareste molto meglio a seguire le orme del defunto vostro padre, e a mettervi in condizione di arrivare alle cariche che gli hanno fruttato tanta gloria. Nureddin ascoltava ridendo la bella Persiana; e, quando lei aveva finito di parlare, rispondeva continuando a ridere: - Bella mia, finiamola con questi discorsi, parliamo solo di divertirci. Il defunto mio padre mi ha sempre tenuto a stecchetto: sono felicissimo di godere della libertà per la quale ho tanto sospirato prima della sua morte. Avrò sempre il tempo di tornare alla vita regolata di cui parlate; un uomo della mia età deve gustare a suo agio i piaceri della giovinezza. Quello che contribuì ancora di più a dissestare gli affari di Nureddin fu il fatto che egli non voleva sentir parlare di fare i conti con il suo maestro di casa. Lo respingeva ogni volta che gli si presentava con il suo libro: - Vai, vai, - gli diceva, - mi fido di te; abbi soltanto cura di farmi sempre mangiar bene. - Voi siete il padrone, signore, - rispondeva il maestro di casa. - Tuttavia permettetemi di ricordarvi il proverbio che dice che chi fa molte spese senza fare i conti, si trova alla fine ridotto a mendicare senza essersene accorto. Voi non vi fermate alla spesa così straordinaria della vostra tavola: voi regalate anche a piene mani. I vostri tesori non possono bastarvi, anche se fossero grandi come montagne. - Vai, ti dico, - gli ripeteva Nureddin, - non ho bisogno delle tue lezioni: continua a farmi mangiare, e non preoccuparti del resto. Gli amici di Nureddin, intanto, erano molto assidui alla sua tavola e non mancavano un'occasione per approfittare della sua leggerezza. Lo lusingavano, lo lodavano e traevano profitto perfino dalle sue azioni più insignificanti; soprattutto non dimenticavano di esaltare tutto quello che gli apparteneva, e ci trovavano il loro tornaconto. - Signore, - gli diceva uno, - l'altro giorno passavo per la terra che avete nel tal posto: niente è più magnifico e meglio arredato della casa, il giardino che la circonda è un paradiso di delizie. - Sono felice che vi piaccia, - rispondeva Nureddin, - portatemi una penna, inchiostro e carta, e che non ne senta più parlare: è vostra, ve la regalo. Altri avevano appena finito di vantargli qualcuna delle sue case, dei suoi bagni o dei pubblici alloggi che possedeva e gli fruttavano una grossa rendita, che egli faceva loro una donazione. La bella Persiana gli faceva vedere il torto che faceva a sé stesso: invece di ascoltarla, alla prima occasione egli continuava a elargire quello che gli restava. Insomma, per tutto un anno, Nureddin altro non fece se non banchettare, darsi all'ozio e divertirsi prodigando e dissipando i grandi beni che i suoi predecessori e il buon visir suo padre avevano acquistato o conservato con molte cure e molte fatiche. L'anno era appena passato, quando un giorno bussarono alla porta della sala dove egli era a tavola: aveva mandato via i suoi schiavi e vi si era chiuso con i suoi amici per essere in completa libertà. Uno degli amici di Nureddin volle alzarsi; ma Nureddin lo prevenne e andò ad aprire personalmente (era il suo maestro di casa), e Nureddin per ascoltare quello che che voleva, uscì dalla sala e chiuse la porta a metà. L'amico che aveva fatto per alzarsi e che aveva visto il maestro di casa, curioso di sapere che cosa dovesse dire a Nureddin andò a collocarsi tra la portiera e la porta e sentì il maestro di casa fare questo discorso: - Signore, - disse al suo padrone, - vi chiedo mille volte perdono se vengo a interrompervi nel mezzo dei vostri divertimenti. Quello che devo comunicarvi è, mi sembra, di così grande importanza che non ho creduto di dovermi dispensare dal prendermi questa libertà. Ho appena finito i miei ultimi conti, e vedo che ciò che avevo previsto da molto tempo e di cui vi avevo avvertito diverse volte è successo: cioè, signore, non ho più una maglia (1) di tutte le somme che mi avete dato per le vostre spese. Anche gli altri fondi che mi avete assegnati sono esauriti; e i vostri fattori e quelli che vi dovevano delle rendite mi hanno dimostrato chiaramente che avete trasferito ad altri quello che essi dovevano a voi, che da loro non posso esigere più niente a nome vostro. Ecco i miei conti: esaminateli e, se desiderate che io continui a rendervi i miei servigi, assegnatemi altri fondi, oppure permettete che me ne vada. Nureddin fu così tanto stupito da questo discorso, che non trovò parole per rispondere. L'amico, che era in ascolto e che aveva sentito tutto, rientrò subito e raccontò agli altri amici quello che aveva saputo. - Dipende da voi, - disse loro, - approfittare di questo avvertimento; quanto a me, vi dichiaro che è l'ultimo giorno che mi vedete in casa di Nureddin. - Stando così le cose, - risposero gli altri, - anche noi non abbiamo altro da fare in casa sua; non ci rivedrà più. Nureddin rientrò in quel momento; e, sebbene cercasse di far buon viso per cercare di rimettere i suoi convitati di buon umore, non riuscì però a dissimulare bene il suo stato d'animo perché essi non si accorgessero della verità di quanto avevano saputo allora. Egli aveva appena ripreso il suo posto, quando uno degli amici si alzò dal suo e gli disse: - Signore, mi dispiace molto di non potervi tenere compagnia più a lungo: vi supplico di permettermi di andarmene. - Che affare vi costringe a lasciarmi così presto? - chiese Nureddin. - Signore, - riprese l'amico, - mia moglie oggi ha partorito; voi sapete che la presenza di un marito è sempre necessaria in un caso simile. Fece una profonda riverenza e andò via. Un attimo dopo, un altro si ritirò con un altro pretesto. Tutti fecero la stessa cosa gli uni dopo gli altri, finché non restò neppure uno solo dei dieci amici che fino a quel momento avevano tenuto così buona compagnia a Nureddin. Nureddin non ebbe nessun sospetto della decisione presa dai suoi amici di non vederlo più. Andò nell'appartamento della bella Persiana e si intrattenne solo con lei sulla dichiarazione fattagli dal suo maestro di casa, con grandi manifestazioni di un vero pentimento per la rovina nella quale erano i suoi affari. - Signore, - gli disse la bella Persiana, - permettetemi di dirvi che avete voluto confidare solo sul vostro proprio giudizio: ora vedete che cosa vi è capitato. Non mi ingannavo quando vi predicevo la triste fine che dovevate aspettarvi. Mi dispiace solo che voi non vediate tutto quello che c'è di spiacevole! Quando volevo dirvi la mia opinione a questo riguardo, mi dicevate: "Divertiamoci e approfittiamo del buon tempo che la fortuna ci offre". Ma non avevo torto di rispondervi che eravamo noi stessi gli artefici della nostra buona fortuna con una saggia condotta. Voi non avete voluto ascoltarmi, e io sono stata costretta a lasciarvi fare mio malgrado. - Ammetto, - replicò Nureddin, - di aver avuto torto a non seguire i consigli così salutari che mi davate con la vostra ammirevole saggezza; ma se ho mangiato tutti i miei beni, considerate che l'ho fatto con un gruppo di amici scelti che conosco da molto tempo. Essi sono onesti e pieni di riconoscenza; sono sicuro che non mi abbandoneranno. - Signore, - replicò la bella Persiana, - se non avete altre risorse eccetto la riconoscenza dei vostri amici, credetemi, la vostra speranza è mal fondata, e con il tempo ve ne accorgerete. - Bella Persiana, - disse a questo punto Nureddin, - ho un'opinione migliore della vostra sull'aiuto che essi mi daranno. Fin da domani andrò a trovarli tutti, prima che si prendano il disturbo di venire qui come al solito; e mi vedrete tornare con una buona somma di denaro, che tutti insieme mi avranno dato per aiutarmi. Cambierò vita, come sono deciso a fare, e farò fruttare questo denaro impiegandolo in qualche commercio. Nurredin non mancò di andare, il giorno dopo, dai suoi dieci amici che abitavano tutti in una stessa strada; bussò alla prima porta che gli si presentò, dove abitava uno dei più ricchi. Uno schiavo, prima di aprire, chiese chi bussava. - Dite al vostro padrone, - rispose Nureddin, - che è Nureddin, figlio del defunto visir Khacan. - Lo schiavo aprì, lo fece entrare in una sala ed entrò nella camera dove si trovava il suo padrone annunciandogli la visita di Nureddin. - Nureddin! - rispose il padrone con un tono di disprezzo e così stentoreo che Nureddin lo sentì con grande stupore. - Vai, digli che non ci sono: e tutte le volte che verrà digli la stessa cosa. Lo schiavo tornò e disse a Nureddin di aver creduto che il padrone fosse in casa, ma di avere sbagliato. Nureddin uscì molto confuso: - Ah! il perfido! che uomo cattivo! - esclamò. - Ieri mi dichiarava che non avevo amico migliore di lui, e oggi mi tratta così indegnamente! Andò a bussare alla porta di un altro amico, che gli fece dire la stessa cosa del primo. Ebbe la stessa risposta in casa del terzo, e da tutti gli altri, fino al decimo, sebbene fossero tutti in casa. Allora Nureddin rientrò veramente in sé e riconobbe il suo irreparabile errore per essersi fidato così facilmente sull'assiduità di quei falsi amici nel restare affezionati alla sua persona e sulle loro proteste di amicizia per tutto il tempo in cui egli era stato in grado di offrire loro sontuosi banchetti e di riempirli di munificenze e di favori. "E' vero, disse fra sé, con le lacrime agli occhi, - che un uomo felice come lo ero io assomiglia a un albero carico di frutti: finché ci sono frutti sull'albero, non si smette di stargli intorno e di coglierne. Appena non ce ne sono più, ci si allontana e lo si lascia solo". Egli si dominò finché rimase fuori di casa; ma, appena rientrato, si abbandonò completamente al suo dolore e andò a manifestarlo alla bella Persiana. Non appena la bella Persiana vide apparire lo sconsolato Nureddin capì che non aveva trovato dai suoi amici l'aiuto che si era aspettato. - Ebbene, signore, - gli disse, - ora siete convinto della verità di ciò che vi avevo predetto? - Ah! mia buona moglie, - esclamò il giovane, - voi me l'avevate predetto anche troppo verosimilmente! Nemmeno uno ha voluto ricevermi, vedermi, parlarmi! Non avrei mai creduto di poter essere trattato così crudelmente da persone che mi devono tanta riconoscenza e per le quali mi sono io stesso rovinato! Non mi so più dominare e ho paura di commettere qualche azione indegna di me, nel deplorevole stato di disperazione in cui sono, se non mi aiutate con i vostri saggi consigli. - Signore, - riprese la bella Persiana, - altro rimedio non vedo alle vostre disgrazie se non quello di vendere i vostri schiavi e i vostri mobili, e di vivere con il loro ricavato finché il Cielo vi indichi qualche altra via per tirarvi fuori dalla miseria. Il rimedio sembrò estremamente duro a Nureddin; ma che avrebbe potuto fare nella condizione in cui era? Vendette per prima cosa i suoi schiavi, bocche allora inutili, che gli sarebbero costati una spesa molto superiore a quella che era in grado di sostenere. Visse per qualche tempo con il danaro ricavato dalla loro vendita; e, quando esso venne a mancare, fece portare i suoi mobili sulla pubblica piazza, dove furono venduti a un prezzo molto inferiore al loro effettivo valore, anche se ce ne erano molti preziosi che erano costati somme immense. Questo gli consentì di vivere per molto tempo; ma infine questo soccorso venne meno, e non gli rimaneva più niente per procurarsi altro denaro: manifestò l'eccesso del suo dolore alla bella Persiana. Nureddin non si aspettava la risposta che gli diede quella saggia donna. - Signore, - gli disse, - io sono la vostra schiava, e sapete che il defunto visir vostro padre mi ha comprata per diecimila monete d'oro. So bene che, da allora, il mio prezzo è calato; ma sono anche convinta che posso ancora essere venduta a una somma non molto inferiore. Date retta a me, non indugiate a portarmi al mercato e a vendermi: con la somma che ne ricaverete, e che sarà assai considerevole, andrete a fare il mercante in qualche città in cui non siete conosciuto e così troverete il mezzo per vivere, se non in una grande opulenza, almeno in modo da rendervi felice e contento. - Ah affascinante e bella Persiana! - esclamò Nureddin, - è possibile che abbiate potuto concepire questo pensiero? Vi ho dato così poche manifestazioni del mio amore da potermi credere capace di questa indegna vigliaccheria? Potrei farlo senza essere spergiuro, dopo il giuramento che ho fatto al defunto mio padre di non vendervi mai? Morirei piuttosto che venirvi meno e separarmi da voi che amo non dico quanto, ma più di me stesso. Facendomi un proposta così irragionevole mi fate capire che siete ben lontana dall'amarmi quanto io vi amo. - Signore, - riprese la bella Persiana, - sono convinta che mi amate tanto quanto dite; e Dio sa se la passione che ho per voi sia inferiore alla vostra, e con quanta ripugnanza vi ho fatto la proposta che vi sdegna così tanto nei miei confronti. Per distruggere il motivo che mi opponete, devo solo ricordarvi che la necessità non ha legge. Io vi amo tanto che non è possibile che voi mi amiate di più e posso garantirvi che non smetterò mai di amarvi con la stessa intensità, a qualsiasi padrone io possa appartenere. Non proverò mai piacere più grande al mondo di quello di riunirmi con voi, appena i vostri affari vi permetteranno di ricomprarmi, come spero. Si tratta, lo ammetto di una necessità molto crudele per voi e per me; ma, tutto sommato, non vedo altri mezzi per sottrarci entrambi alla miseria. Nureddin, che conosceva benissimo la verità di quanto gli aveva detto la bella Persiana, e che non aveva altre risorse per evitare una povertà ignominiosa, fu costretto a seguire il consiglio che lei gli aveva dato. Perciò, con indicibile rimpianto, la portò al mercato dove si vendevano le schiave. Si rivolse a un mediatore di nome Hagi Hassan e gli disse: - Hagi Hassan, voglio vendere questa schiava; vedi, ti prego, che prezzo offrono. Hagi Hassan fece entrare Nureddin e la bella Persiana in una stanza e appena la bella Persiana si fu tolta il velo che le ricopriva il viso: - Signore, - disse Hagi Hassan a Nureddin con ammirazione - Non m'inganno? Non è la schiava che il defunto visir vostro padre comprò al prezzo di diecimila monete d'oro? Nureddin gli assicurò che era proprio lei; e Hagi Hassan, facendogli sperare che ne avrebbe ricavato una forte somma, gli promise che sarebbe ricorso a tutta la sua abilità per farla comprare al più alto prezzo possibile. Hagi Hassan e Nureddin uscirono dalla stanza, e il mediatore vi rinchiuse la bella Persiana. Poi andò a cercare i mercanti; ma erano tutti occupati a comprare delle schiave greche, africane, tartare eccetera, e fu costretto ad aspettare che avessero terminato i loro acquisti. Quando ebbero finito e quando furono quasi tutti riuniti, con un'allegria che traspariva dal suo viso e dai suoi gesti, disse loro: - Miei buoni signori, non tutto quello che è rotondo è una nocciola, non tutto quello che è lungo è un fico; non tutto quello che è rosso è carne e non tutte le uova sono fresche. Voglio dirvi che voi avete visto e comprato tante schiave in vita vostra; ma non ne avete vista una sola che possa sostenere il confronto con quella di cui vi parlo. E' la perla delle schiave; venite, seguitemi, ve la voglio mostrare. Voglio che mi diciate voi stessi da quale prezzo devo partire per metterla all'incanto. I mercanti seguirono Hagi Hassan che aprì loro la porta della stanza dov'era la bella Persiana. Essi la videro con meraviglia, e convennero tutti che non la si poteva mettere a un prezzo inferiore a quello di quattromila monete d'oro. Uscirono dalla stanza, e Hagi Hassan, che uscì con loro dopo aver chiuso la porta, gridò a voce alta, senza allontanarsene: - A quattromila monete d'oro la schiava persiana! Nessuno dei mercanti aveva ancora parlato, e si consultavano fra di loro sull'offerta che dovevano fare, quando apparve il visir Sauy. Poiché aveva scorto Nureddin nella piazza, disse fra sé: "Pare che Nureddin abbia ricavato denaro da qualche mobile (sapeva infatti che ne aveva venduti) e sia venuto a comprare una schiava". Mentre Sauy avanza, Hagi Hassan grida una seconda volta: - A quattromila monete d'oro la schiava persiana! Questo prezzo elevato fece pensare a Sauy che la schiava doveva essere di una bellezza tutta particolare, e subito gli venne un gran desiderio di vederla. Spinse il suo cavallo diritto verso Hagi Hassan, che era circondato dai mercanti, e gli disse: - Apri la porta; fammi vedere la schiava. Non era secondo la prassi mostrare una schiava a un privato, dopo che i mercanti l'avevano vista e stavano mercanteggiando. Ma i mercanti non ebbero il coraggio di far valere il loro diritto contro l'autorità del visir, e Hagi Hassan non poté evitare di aprire la porta e far segno alla bella Persiana di avvicinarsi affinché Sauy potesse vederla senza scendere da cavallo. Quando vide una schiava di così straordinaria bellezza, Sauy fu preso da un'indicibile ammirazione. Era già stato in rapporti col mediatore, e ne conosceva il nome. - Hagi Hassan, - gli disse, - l'hai messa in vendita a quattromila monete d'oro, vero? - Sì, signore, - egli rispose; - i mercanti qui presenti hanno stabilito, appena un istante fa, che io la mettessi in vendita a questo prezzo. Aspetto che essi mi offrano di più all'asta e all'ultima offerta. - Darò io questa somma, - riprese Sauy, - se nessuno offre di più. - Guardò subito i mercanti con uno sguardo che manifestava chiaramente che egli non voleva che facessero offerte superiori. Era così temuto da tutti, che essi si guardarono bene dall'aprire bocca, neanche per lamentarsi per quello che egli faceva contro il loro diritto. Quando il visir Sauy ebbe aspettato un po' di tempo, vedendo che nessun mercante offriva un prezzo maggiore, disse ad Hagi Hassan: - Ebbene, che aspetti? Va' a cercare il venditore e concludi con lui l'acquisto a quattromila monete d'oro o chiedigli che cosa vuol fare. Egli non sapeva ancora che la schiava era di Nureddin. Hagi Hassan, che aveva già chiuso la porta della camera, andò a parlare con Nureddin. - Signore, - gli disse, - sono molto dolente di venirvi ad annunciare una brutta notizia: la vostra schiava sta per essere venduta per niente. - Per quale ragione? chiese Nureddin. - Signore, - replicò Hagi Hassan, - la cosa aveva avuto un buonissimo inizio. Appena i mercanti ebbero visto la vostra schiava, mi incaricarono, senza far cerimonie, di metterla all'asta al prezzo di quattromila monete d'oro. L'ho messa in vendita a questo prezzo; e subito è arrivato il visir Sauy, e la sua presenza ha chiuso la bocca ai mercanti, che vedevo disposti a farla salire almeno allo stesso prezzo al quale l'acquistò il defunto visir vostro padre. Sauy vuol dare solo le quattromila monete d'oro e, mio malgrado, devo venire a riferirvi un'offerta così irragionevole. La schiava è vostra, ma non vi consiglierò mai di venderla a questo prezzo. Voi conoscete Sauy, signore, e tutti lo conoscono. A parte il fatto che la schiava vale infinitamente di più, egli è un uomo molto cattivo ed escogiterà qualche mezzo per non darvi neppure la somma stabilita. - Hagi Hassan, - replicò Nureddin, - ti sono riconoscente per il consiglio; non temere che io tolleri che la mia schiava sia venduta al nemico della mia casa. Ho grande bisogno di denaro: ma preferirei morire nell'estrema povertà piuttosto che permettere che lei gli sia venduta. Ti chiedo una sola cosa: poiché conosci tutti gli usi e tutte le scappatoie, dimmi solo che debbo fare per impedirglielo. - Signore - rispose Hagi Hassan, - non c'è niente di più facile. Fingete di essere andato in collera contro la vostra schiava e di aver giurato che l'avreste portata al mercato, che non intendevate venderla, e avete fatto questo solo per non venir meno al vostro giuramento. Questo soddisferà tutti, e Sauy non potrà dire niente. Venite dunque, e nel momento in cui presenterò la schiava a Sauy, come se voi aveste acconsentito e l'acquisto fosse concluso, riprendetela dandole qualche bastonata e riportatela in casa vostra. - Ti ringrazio, - gli disse Nureddin; - vedrai che seguirò il tuo consiglio. Hagi Hassan ritornò alla stanza, l'aprì ed entrò. Dopo aver avvertito in due parole la bella Persiana di non preoccuparsi di quanto sarebbe successo, la prese per il braccio e la portò al visir Sauy, che era sempre davanti alla porta. - Signore, - disse presentandogliela, - ecco la schiava: è vostra, prendetela. Hagi Hassan non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che Nureddin, afferrata la bella Persiana, la tirò verso di sé dandole uno schiaffo. - Venite qui, impertinente, - le disse a voce abbastanza alta da essere sentito da tutti, - e tornate a casa. Il vostro brutto carattere mi aveva ben costretto a giurare di portarvi al mercato, ma non di vendervi. Ho ancora bisogno di voi, e avrò tempo per arrivare a questi estremi, quando non mi resterà più nient'altro. Quest'azione di Nureddin fece andare in collera il visir Sauy. - Miserabile depravato, - esclamò, - vuoi farmi credere che ti restano altre cose da vendere oltre alla tua schiava? - Nello stesso tempo spinse il suo cavallo contro il giovane per afferrare la bella Persiana. Nureddin, punto sul vivo dall'affronto fattogli dal visir, altro non fece se non lasciare la bella Persiana dicendole di aspettarlo, e, gettandosi sulla briglia del cavallo, gli fece fare tre o quattro passi indietro. - Brutto vecchiaccio, - disse allora al visir, - ti toglierei l'anima in questo istante, se non mi trattenesse la considerazione per tutte le persone qui presenti. Poiché il visir non era amato da nessuno e, anzi, era odiato da tutti, non c'era uno fra tutti i presenti che non fosse felice che Nureddin lo avesse un po' mortificato. Essi glielo dimostrarono a cenni e gli fecero capire che poteva vendicarsi come voleva, e che nessuno sarebbe intervenuto nella loro disputa. Sauy volle fare uno sforzo per costringere Nureddin a lasciare la briglia del suo cavallo, ma Nureddin, che era forte e possente, incoraggiato dalla benevolenza dei presenti, lo tirò giù da cavallo in mezzo al rigagnolo, gli diede mille colpi e gli batté la testa insanguinata contro il selciato. Dieci schiavi che accompagnavano Sauy cercarono di sfoderare la sciabola e di gettarsi su Nureddin; ma i mercanti si misero in mezzo e glielo impedirono. - Che volete fare? - dissero loro. - Non vedete che se uno è visir, l'altro è figlio di visir? Lasciate che risolvano fra di loro la disputa. Forse uno di questi giorni si rappacificheranno; e, se uccideste Nureddin, credete che il vostro padrone, per potente che sia, potrebbe sottrarvi alla giustizia? Infine Nureddin si stancò di bastonare il visir Sauy; lo lasciò in mezzo al rigagnolo, riprese la bella Persiana e ritornò a casa, tra le acclamazioni del popolo che lo lodava per l'azione che aveva compiuta. Sauy, pesto per i colpi, si rialzò a fatica con l'aiuto dei suoi uomini, ed ebbe l'estrema mortificazione di vedersi tutto imbrattato di fango e di sangue. Si appoggiò alle spalle di due schiavi, e in quello stato andò dritto a palazzo, sotto gli occhi di tutti, con vergogna tanto maggiore in quanto nessuno lo compiangeva. Quando arrivò sotto l'appartamento del re, si mise a gridare e a implorare la sua giustizia in maniera pietosa. ll re lo mandò a chiamare, e appena lo ebbe visto, gli chiese chi lo avesse maltrattato e ridotto in quello stato. - Sire, - esclamò Sauy, - bisogna solo essere in grande favore presso la Vostra Maestà e partecipare ai suoi sacri consigli per essere trattato nel modo indegno in cui vedete che mi hanno trattato. - Finiamola con questi discorsi, - riprese il re; - ditemi solo come stanno le cose e chi vi ha offeso. Se ha torto, saprò bene farlo pentire. - Sire, - disse allora Sauy raccontando la cosa tutta a suo vantaggio. - ero andato al mercato delle schiave per comprare personalmente una cuoca di cui avevo bisogno, sono arrivato e ho trovato che stavano mettendo al bando una schiava a quattromila monete d'oro. Mi sono fatto portare la schiava; ed è la più bella che si sia mai vista e che mai si possa vedere. Dopo averla considerata un po' con la massima soddisfazione, ho chiesto a chi appartenesse, e ho saputo che Nureddin, figlio del defunto visir Khacan, voleva venderla. Vostra Maestà si ricorda, Sire, di aver dato diecimila monete d'oro a quel visir, due o tre anni or sono, e di averlo incaricato di comprarvi una schiava per quella somma. Egli l'aveva usata per comprare questa schiava di cui parlo; ma, invece di portarla a Vostra Maestà, non vi giudicò degno di lei e la regalò al figlio. Dopo la morte del padre, il figlio ha bevuto, mangiato e dissipato tutto quello che aveva, e gli è restata soltanto questa schiava che infine si era deciso a vendere e che, infatti, vendevano a nome suo. Io l'ho fatto venire e, senza parlargli della prevaricazione o meglio della perfidia di suo padre verso Vostra Maestà: "Nureddin, - gli ho detto nel modo più gentile possibile, - i mercanti, come ho saputo, hanno messo in vendita la vostra schiava a quattromila monete d'oro. Non dubito che, facendo a gara l'uno con l'altro, la facciano salire a un prezzo molto più alto. Ascoltatemi, datela a me per quattromila monete d'oro, la comprerò per farne un regalo al re nostro signore e padrone, e vi acquisterò merito ai suoi occhi. Questo vi frutterà infinitamente più di quanto i mercanti potranno darvi". Invece di rispondere rendendo gentilezza per gentilezza, l'insolente mi ha guardato con fierezza e mi ha detto. "Brutto vecchio, darei la mia schiava per niente a un ebreo, piuttosto che venderla a te". "Ma Nureddin, - ho replicato senza arrabbiarmi, sebbene ne avessi un così buon motivo, - voi non vi rendete conto che, parlando così, ingiuriate il re, che ha fatto di vostro padre ciò che era, così come ha fatto di me quello che sono". Questa rimostranza, che doveva calmarlo, altro non ha fatto se non irritarlo di più; si è gettato subito su di me come un pazzo furioso, senza nessuna considerazione per la mia età, ancora meno per la mia dignità, mi ha gettato giù da cavallo, mi ha colpito per tutto il tempo che ha voluto e mi ha messo nello stato in cui Vostra Maestà mi vede. Vi supplico di considerare che subisco un affronto tanto sanguinoso nel vostro interesse. Dette queste parole, abbassò la testa e si girò da un lato per lasciare scorrere le sue abbondanti lacrime. Il re, ingannato e aizzato contro Nureddin da questo discorso pieno di falsità, lasciò apparire sul suo viso i segni di una profonda collera; si rivolse al capitano delle guardie, che era al suo fianco, e gli disse. - Prendete quaranta uomini della mia guardia, e dopo aver messa a sacco la casa di Nureddin e dato l'ordine di raderla al suolo, portatetelo da me con la sua schiava. Il capitano delle guardie non era ancora uscito dall'appartamento del re, quando un usciere della stanza, che aveva sentito quell'ordine, l'aveva già preceduto. Si chiamava Sangiar, e in passato era stato schiavo del visir Khacan, che lo aveva introdotto alla corte del re, dove pian piano era salito di grado. Sangiar, pieno di riconoscenza per il suo antico padrone e di zelo per Nureddin che aveva visto nascere, conoscendo da molto tempo l'odio di Sauy contro la casa di Khacan, non aveva potuto ascoltare quell'ordine senza fremere. "L'azione di Nureddin, disse fra sé, - non può essere così nefanda come l'ha raccontata Sauy, che si è premunito con il re, e il re farà morire Nureddin senza dargli il tempo di giustificarsi". Corse tanto che arrivò giusto in tempo per avvertirlo di ciò che era successo dal re e dargli la possibilità di fuggire con la bella Persiana. Bussò alla porta in modo tale da costringere Nureddin, ad aprirgli personalmente senza indugio. - Mio caro signore, - gli disse Sangiar, - Bassora non è più un posto sicuro per voi; partite e mettetevi in salvo senza perdere un minuto. - Perché? - chiese Nureddin. - Che cosa mi obbliga così perentoriamente a partire? - Partite, vi dico, - riprese Sangiar - e portate la vostra schiava con voi. In due parole, Sauy ha raccontato al re, come ha voluto, quello che è successo fra voi due; e il capitano delle guardie sta venendo dietro di me con quaranta soldati per arrestare voi e lei. Prendete queste quaranta monete d'oro che vi aiuteranno a cercare un asilo: ve ne darei di più se ne avessi con me. Scusatemi se non mi fermo ancora; vi lascio mio malgrado, per il vostro bene e per il mio, per l'interesse che ho che il capitano delle guardie non mi veda. Sangiar diede a Nureddin appena il tempo di ringraziarlo e andò via. Nureddin andò ad avvertire la bella Persiana della necessità che avevano tutti e due di allontanarsi immediatamente, lei si mise il velo e uscirono dalla casa. Ebbero la fortuna non solo di uscire dalla città senza che nessuno si accorgesse della loro evasione, ma anche di arrivare alla foce dell'Eufrate che non era lontana, e di imbarcarsi su un bastimento pronto a levare l'ancora. Infatti, quando essi arrivarono, il capitano era sul ponte in mezzo ai passeggieri. - Ragazzi - chiese loro, - siete tutti qui? Qualcuno di voi ha ancora qualcosa da fare o ha dimenticato qualcosa in città? A questa domanda, ognuno rispose che c'erano tutti e che poteva salpare quando voleva. Appena fu imbarcato, Nureddin chiese dove era diretta la nave, e fu felice di sapere che andava a Bagdad. Il capitano fece levare l'ancora, e il veliero si allontanò da Bassora con un vento favorevolissimo. Ecco che cosa successe a Bassora, mentre Nureddin sfuggiva alla collera del re con la bella Persiana. Il capitano delle guardie arrivò alla casa di Nureddin e bussò alla porta. Vedendo che nessuno apriva, la fece sfondare e subito i suoi soldati entrarono in gruppo: cercarono in tutti gli angoli e in tutti i cantucci, e non trovarono né Nureddin né la sua schiava. Il capitano delle guardie fece chiedere e chiese lui stesso ai vicini se li avessero visti. Anche se li avessero visti, poiché non ce n'era uno che non amasse Nureddin, non ce ne sarebbe stato uno che avrebbe detto qualcosa che potesse nuocergli. Mentre saccheggiavano e radevano al suolo la casa, il capitano andò a portare la notizia al re. - Cercateli in qualsiasi posto possano essere, - disse il re, voglio acciuffarli. Il capitano delle guardie andò a fare nuove perquisizioni, e il re congedò con onore il visir Sauy: - Andate, - gli disse, - tornate a casa, e non preoccupatevi del castigo di Nureddin; vi vendicherò io stesso della sua insolenza. Per non lasciare niente di intentato, il re fece proclamare in tutta la città dai banditori pubblici che avrebbe dato mille monete d'oro a chi gli avesse portato Nureddin e la sua schiava, che avrebbe fatto punire severamente chi li avesse nascosti. Ma, nonostante tanta sollecitudine e le ricerche che fece fare, non gli fu possibile avere nessuna notizia; e il visir Sauy ebbe solo la consolazione di vedere che il re aveva preso le sue parti. Intanto Nureddin e la bella Persiana viaggiavano e proseguivano la loro rotta con la maggior fortuna possibile. Infine approdarono a Bagdad, e non appena il capitano, felice di aver compiuto il suo viaggio, ebbe visto la città, rivolto ai passeggieri esclamò: - Ragazzi! rallegriamoci; eccola, questa grande e meravigliosa città, dove c'è un afflusso generale e continuo da tutte le parti del mondo. Vi troverete un'innumerevole moltitudine di gente e non sentirete l'insopportabile freddo dell'inverno, né gli eccessivi calori dell'estate; vi godrete un'eterna primavera, con i suoi fiori e i deliziosi frutti dell'autunno. Quando il bastimento fu approdato a una certa distanza dalla città, i passeggieri sbarcarono e ognuno andò dove doveva alloggiare. Nureddin diede cinque monete d'oro per il suo passaggio e sbarcò anche lui insieme con la bella Persiana. Ma non era mai stato a Bagdad, e non sapeva dove andare ad abitare. Camminarono per molto tempo lungo i giardini che costeggiavano il Tigri, e passarono vicino a uno, cinto da una bella e lunga muraglia. Arrivati in fondo, girarono in una lunga strada ben selciata dove videro la porta del giardino, accanto alla quale c'era una bella fontana. La porta, di grande bellezza, era chiusa, con un vestibolo aperto dove c'era un divano da tutti e due i lati. - Questo è un posto molto comodo, - disse Nureddin alla bella Persiana; - la notte si avvicina e noi abbiamo mangiato prima di sbarcare, sono del parere di passare la notte qui e domani mattina avremo il tempo di cercare un alloggio. Che ne dite? - Voi sapete, signore, - rispose la bella Persiana, - che voglio solo ciò che volete voi, non andiamo oltre, se desiderate così. Bevettero entrambi alla fontana e sedettero su uno dei due divani dove parlarono per un po'. Infine il sonno li colse, e si addormentarono al piacevole mormorio dell'acqua. Il giardino apparteneva al califfo, e al centro sorgeva un grande padiglione, chiamato padiglione delle pitture perché il suo principale ornamento era costituito da pitture persiane, opere di parecchi pittori persiani, fatti venire appositamente dal califfo. La grande e splendida sala formata da questo padiglione prendeva luce da ottanta finestre, ognuna con un lampadario, e gli ottanta lampadari si accendevano quando il califfo veniva a passarvi la serata e il tempo era così sereno che non c'era un soffio di vento. Allora essi producevano una magnifica illuminazione, che si vedeva da molto lontano nella campagna da quel lato e da una gran parte della città. In quel giardino abitava solo un portiere; questi era un vecchio domestico molto anziano, di nome Sheih Ibrahim, che occupava quel posto in cui il califfo stesso lo aveva messo per ricompensa. Il califfo gli aveva vivacemente raccomandato di non lasciar entrare nessun tipo di persone, e soprattutto di non permette che qualcuno si sedesse o si fermasse sui due divani che erano fuori dalla porta, affinché fossero sempre puliti, e di punire quelli che vi avesse trovato. Una faccenda aveva costretto il portiere a uscire, e non era ancora tornato. Infine tornò, e arrivò che era ancora abbastanza chiaro da accorgersi subito che due persone dormivano su uno dei divani, entrambe con le teste coperte da un panno per ripararsi dai moscerini. "Ebbene, - disse Sheih Ibrahim fra sé, - queste persone trasgrediscono l'ordine del califfo; ora insegnerò loro il rispetto che gli devono". Aprì la porta senza far rumore; e un minuto dopo tornò con un grosso bastone in mano, e sollevò il braccio. Stava per colpire con tutta la sua forza entrambi, ma si trattenne. "Sheih Ibrahim, - si disse - tu stai per colpirli, e non consideri che forse sono stranieri, che non sanno dove andare ad alloggiare e ignorano l'ordine del califfo; è meglio che tu sappia prima chi sono". Con grande precauzione, sollevò il panno che copriva le loro teste, e la sua ammirazione fu estrema vedendo un giovane così ben fatto e una donna così bella. Svegliò Nureddin tirandolo un po' per i piedi. Nureddin alzò subito la testa e, appena ebbe visto ai suoi piedi un vecchio con la lunga barba bianca, si mise a sedere, scivolando sulle ginocchia, e presagli la mano, gliela baciò e gli disse: - Buon padre, che Dio vi conservi! desiderate qualcosa? - Figlio mio, - rispose Seih Ibrahim, - chi siete? Di dove siete? - Siamo stranieri appena arrivati, - replicò Nureddin, - e vogliamo passare qui la notte fino a domani. - Qui starete male, - replicò Sheih Ibrahim - venite, entrate vi offrirò da dormire più comodamente; e la vista del giardino, che è bellissimo, vi rallegrerà finché c'è ancora un po' di luce. - E' vostro questo giardino? - gli chiese Nureddin. - Veramente sì, è mio; - rispose Sheih Ibrahim sorridendo, - è un'eredità lasciatemi da mio padre. Entrate, vi dico, non vi dispiacerà vederlo. Nureddin si alzò, testimoniando a Sheih Ibrahim quanto gli era obbligato per la sua cortesia, ed entrò nel giardino con la bella Persiana. Sheih Ibrahim chiuse la porta e, precedendoli, li portò in un posto da dove, con un'occhiata, videro la disposizione, la grandezza e la bellezza del giardino. Nureddin aveva visto tanti bei giardini a Bassora; ma non ne aveva ancora visti di simili a questo. Dopo aver ben ammirato tutto e aver passeggiato in qualche viale, si girò verso il portiere che lo accompagnava e gli chiese come si chiamasse. Appena questi gli ebbe risposto di chiamarsi Sheih Ibrahim, Nureddin gli disse: - Sheih Ibrahim bisogna riconoscere che è un giardino meraviglioso; Dio vi conservi a lungo! Non possiamo ringraziarvi abbastanza della grazia che ci avete fatto mostrandoci un posto così degno di essere visto; è giusto che vi testimoniamo la nostra riconoscenza in qualche modo. Prendete, ecco due monete d'oro: vi prego di farci prendere qualcosa da mangiare, affinché possiamo banchettare insieme. Alla vista delle due monete d'oro, Sheih Ibrahim, che amava molto questo metallo, sorrise sotto i baffi; le prese e, lasciando Nureddin e la bella Persiana per andare a fare la commissione, dato che era solo disse fra sé molto contento: "Ecco delle brave persone; avrei fatto un grave torto a me stesso se avessi avuto l'imprudenza di maltrattarli e scacciarli. Offrirò loro un banchetto da principi con la decima parte di questo denaro, e il resto me lo terrò per il mio disturbo". Mentre Sheih Ibrahim andava a comprare il necessario per la cena sia per lui sia per i suoi ospiti, Nureddin e la bella Persiana passeggiarono nel giardino e arrivarono al padiglione delle pitture che sorgeva al centro di esso. Si fermarono a contemplarne all'inizio la mirabile struttura, la grandezza e l'altezza; e, dopo averne fatto il giro guardandolo da tutti i lati, salirono una scala di marmo bianco che portava alla porta della sala: ma la trovarono chiusa. Nureddin e la bella Persiana erano appena discesi quando arrivò Sheih Ibrahim carico di viveri. - Sheih Ibrahim, - gli disse Nureddin con stupore, - non ci avete detto che questo giardino vi appartiene? - L'ho detto, - rispose Sheih Ibrahim, - e lo dico ancora. Perché mi fate questa domanda? - E anche questo stupendo padiglione vi appartiene? - chiese ancora Nureddin. Sheih Ibrahim non si aspettava quest'altra domanda e sembrò un po' esitante. "Se dico che non è mio, disse fra sé, - mi chiederanno subito come è possibile che io sia padrone del giardino e non del padiglione". Poiché, aveva voluto fingere che il giardino gli appartenesse, finse la stessa cosa per il padiglione. - Figlio mio, - replicò, - il padiglione non va senza il giardino; mi appartengono entrambi. - Stando così le cose, - riprese allora Nureddin, - e poiché questa notte ci volete gentilmente come vostri ospiti, fateci, vi supplico la grazia di mostrarcene l'interno: a giudicare dall'esterno, deve essere una magnificenza straordinaria. Non sarebbe stato gentile da parte di Sheih Ibrahim rifiutare a Nureddin la richiesta che gli rivolgeva, dopo quanto gli aveva già detto. Inoltre, considerò che il califfo non aveva mandato a preavvisarlo, come era solito fare e perciò non sarebbe venuto quella sera, e poteva farvi mangiare i suoi ospiti e mangiare con loro. Posò i viveri che aveva portato sul primo gradino della scala e andò a prendere la chiave nel suo alloggio. Ritornò portando una lampada e aprì la porta. Nureddin e la bella Persiana entrarono nella sala e sembrò loro così stupenda, che non potevano stancarsi di ammirarne la bellezza e lo sfarzo. Infatti, senza parlare delle pitture, i divani erano magnifici; e, oltre ai lampadari che pendevano da ogni finestra, c'era anche, tra una finestra e l'altra, un braccio d'argento, ognuno con una candela; e Nureddin non riuscì a guardare tutti gli oggetti senza ricordarsi dello splendore nel quale era vissuto e senza rimpiangerlo. Sheih Ibrahim, intanto, portò le vivande, preparò la tavola su un divano e, quando tutto fu pronto, si sedette a tavola con Nureddin e la bella Persiana e cominciarono a mangiare. Dopo aver finito e dopo essersi lavati le mani, Nureddin aprì una finestra e chiamò la bella Persiana. - Avvicinatevi, - le disse, - e ammirate con me la bella vista e la bellezza del giardino al chiaro di luna; non c'è niente di più incantevole. Lei si avvicinò e godettero insieme di questo spettacolo, mentre Sheih Ibrahim sparecchiava. Quando Sheih Ibrahim ebbe finito ed ebbe raggiunto i suoi ospiti Nureddin gli chiese se avesse qualche bevanda da offrire loro. - Che bevanda volete? - domandò Sheih Ibrahim. - Vorreste del sorbetto? Ne ho dei più squisiti; ma sapete bene, figlio mio, che dopo cena non si beve il sorbetto. - Lo so bene, - rispose Nureddin; - non vi chiediamo del sorbetto, ma un'altra bevanda; mi stupisco che non mi capiate. - Volete dunque parlare del vino? - replicò Sheih Ibrahim. - Avete indovinato, - gli disse Nureddin; - se ne avete, fateci la cortesia di portarne una bottiglia. Sapete che c'è l'abitudine di berne una bottiglia dopo cena, per passare il tempo fino all'ora di coricarsi. - Dio mi guardi dall'avere del vino in casa! - esclamò Sheih Ibrahim, - ed anche dall'avvicinarmi a un posto in cui ve ne sia! Un uomo come me, che ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca quattro volte, ha rinunciato al vino per tutta la vita. - Tuttavia, ci fareste un gran piacere se poteste procurarcene,riprese Nureddin; - e se ciò non vi dà fastidio, vi insegnerò un modo per procurarvene senza entrare nell'osteria e senza toccare le bottiglie di vino. - A questa condizione accetto volentieri, - replicò Sheih Ibrahim: - ditemi solo che cosa devo fare. - All'ingresso del vostro giardino, - disse allora Nureddin, abbiamo visto attaccato un asino: indubbiamente è vostro, e all'occorrenza dovete servirvene. Guardate: ecco altre due monete d'oro; prendete l'asino con i suoi panieri e andate alla prima osteria, avvicinandovi solo quel tanto che vorrete, date qualcosa al primo che passa e chiedetegli di andare fino all'osteria con l'asino, di comprare due brocche di vino, che metterà l'una in un paniere e l'altra nell'altro, e di riportarvi l'asino dopo aver pagato il vino con il denaro che gli darete. Dovreste soltanto spingere l'asino davanti a voi fin qui, e noi stessi prenderemo le brocche dal paniere. In questo modo non farete niente che possa procurarvi la minima ripugnanza. Le due altre monete d'oro che Sheih Ibrahim aveva appena ricevuto ebbero un potente effetto sul suo animo. - Ah! figlio mio, - esclamò, quando Nureddin ebbe finito di parlare, - come siete accorto! Senza di voi non avrei mai pensato a questo mezzo per procurarvi del vino senza scrupolo. Li lasciò per andare a fare la commissione, e la eseguì in poco tempo. Appena egli fu di ritorno, Nureddin scese, prese le brocche dai panieri e le portò nella sala. Sheih Ibrahim riportò l'asino dove l'aveva preso e quando tornò Nureddin gli disse: - Sheih Ibrahim, non possiamo ringraziarvi come meritate del disturbo che avete voluto prendervi, ma ci manca ancora qualcosa. - E che cosa? - chiese Sheih Ibrahim. - Che posso fare ancora per voi? - Non abbiamo coppe, - rispose Nureddin, - e, se aveste un po' di frutta, ci starebbe proprio bene. - Dovete soltanto parlare, - replicò Sheih Ibrahim, - non vi mancherà niente di quello che desiderate. Sheih Ibrahim scese, e in poco tempo preparò loro una tavola imbandita con bei vasi di porcellana pieni di diverse qualità di frutta, coppe d'oro e d'argento in quantità; e, dopo aver loro chiesto se avessero bisogno d'altro, si ritirò sebbene lo pregassero con molta insistenza di restare. Nureddin e la bella Persiana si misero a tavola e cominciarono a bere un bicchiere ciascuno, giudicarono il vino eccellente. - Ebbene, mia bella, - disse Nureddin alla bella Persiana, - non siamo i più fortunati del mondo per il fatto che il caso ci ha portato in un posto tanto ameno e incantevole? Rallegriamoci e rifacciamoci del cattivo cibo mangiato durante il nostro viaggio. Posso essere più felice di così, avendo voi da un lato e la coppa dell'altro? Bevettero ancora a lungo, intrattenendosi piacevolmente e cantando ognuno la propria canzone. Poiché avevano entrambi una voce perfetta, soprattutto la bella Persiana, il loro canto attirò Sheih Ibrahim, che li ascoltò a lungo dalla scala, con gran diletto, senza farsi vedere. Infine si mostrò sporgendo la testa dalla porta. - Coraggio, signore! - disse a Nureddin che credeva già ubriaco;- sono felice di vedervi così contenti. - Ah! Sheih Ibrahim, - esclamò Nureddin rivolgendosi verso di lui, - che brav'uomo siete, e come dobbiamo esservi grati! Non osiamo chiedervi di bere un bicchiere con noi: ma entrate almeno. Venite, avvicinatevi e fateci se non altro l'onore di tenerci compagnia. - Continuate, continuate, - riprese Sheih Ibrahim, - mi accontento del piacere di ascoltare le vostre belle canzoni. - E dicendo queste parole scomparve. La bella Persiana si accorse che Sheih Ibrahim si era fermato sulla scala e avvertì Nureddin. - Signore, - aggiunse, - come vedete, egli dimostra avversione per il vino; non dispero però di fargliene bere, se volete fare quello che vi dirò. - E che cosa? - chiese Nureddin; - dovete soltanto parlare, farò ciò che vorrete. - Convincetelo soltanto a entrare e a restare con noi, - disse la donna; - dopo un po' versategli da bere e offritegli la coppa; se rifiuta, bevete, e poi fate finta di dormire: io farò il resto. Nureddin capì l'intenzione della bella Persiana; chiamò Sheih Ibrahim, che comparve di nuovo sulla porta. - Sheih Ibrahim, - gli disse, - noi siamo vostri ospiti, e ci avete ricevuto nel miglior modo possibile, vorreste non accogliere la preghiera che vi rivolgiamo di onorarci della vostra compagnia? Non vi chiediamo di bere, ma solo di farci il piacere di stare con noi. Sheih Ibrahim si lasciò convincere: entrò e si sedette sull'orlo del divano più vicino alla porta. - Non state comodo là e non abbiamo l'onore di vedervi, - disse allora Nureddin; - avvicinatevi, ve ne supplico, e sedetevi vicino alla signora, che accetterà volentieri. - Farò dunque come volete, - disse Sheih Ibrahim. Si avvicinò e, sorridendo per il piacere che avrebbe provato stando vicino a una così bella donna, si sedette poco distante dalla bella Persiana. Nureddin la pregò di cantare una canzone, in considerazione dell'onore che faceva loro Sheih Ibrahim, e lei ne cantò una che lo mandò in estasi. Quando la bella Persiana ebbe finito di cantare, Nureddin versò del vino in una coppa e la offrì a Sheih Ibrahim. - Sheih Ibrahim, - gli disse, - bevete un bicchiere alla nostra salute, ve ne prego. - Signore, - rispose il vecchio ritraendosi, - vi supplico di scusarmi; vi ho già detto che ho rinunciato al vino da molto tempo. - Poiché non volete assolutamente bere alla nostra salute, disse Nureddin, - permettetemi di bere alla vostra. Mentre Nureddin beveva, la bella Persiana tagliò la metà di una mela e, offrendola a Sheih Ibrahim, gli disse: - Non avete voluto bere, ma non credo che facciate la stessa difficoltà da assaggiare questa mela, che è eccellente. Sheih Ibrahim non poté rifiutarla da una così bella mano, la prese inchinando la testa e se la portò alla bocca. Lei gli disse qualche galanteria a questo proposito, e intanto Nureddin si stese sul divano e fece finta di dormire. Subito la bella Persiana si avvicinò a Sheih Ibrahim, e parlandogli a voce bassissima, gli disse: - Lo vedete? Fa sempre così ogni volta che ci divertiamo insieme; appena ha bevuto due coppe si addormenta e mi lascia sola; ma spero che vogliate tenermi compagnia mentre lui dorme. La bella Persiana prese una coppa, la riempì di vino e, porgendola a Sheih Ibrahim, gli disse: - Prendete e bevete alla mia salute; io brinderò con voi. Sheih Ibrahim fece molte difficoltà, e la pregò in tutti i modi di volerlo dispensare dall'accettare; ma lei lo sollecitò così vivamente che, vinto dalle sue attrattive e dalle sue insistenze, prese la coppa e bevve senza lasciarne una goccia. Al buon vecchio piaceva bere il suo bicchierino ma aveva vergogna di farlo davanti a persone che non conosceva. Egli andava di nascosto all'osteria come molti altri, e non aveva preso la precauzione insegnatagli da Nureddin per andare a comprare il vino. Era andato a prenderlo senza storie da un oste dal quale era conosciutissimo; la notte gli aveva fatto da mantello, e aveva risparmiato il denaro che avrebbe dovuto dare a quello che, secondo la lezione di Nureddin, doveva incaricare della commissione. Mentre Sheih Ibrahim, dopo aver bevuto, finiva di mangiare la mezza mela, la bella Persiana gli riempì un'altra coppa, che egli accettò con molto meno difficoltà: alla terza non ne oppose nessuna. Stava infine bevendo la quarta quando Nureddin smise di fingere di dormire; si alzò a sedere e, guardandolo, scoppiò a ridere sonoramente e gli disse: - Ah! ah! Sheih Ibrahim, vi ho sorpreso: mi avete detto di aver rinunciato al vino, ma vedo che lo bevete ugualmente. Sheih Ibrahim non si aspettava di essere sorpreso, e il viso gli si arrossò un po'. Tuttavia questo non gli impedì di finire di bere e poi disse ridendo: - Signore, se c'è peccato in quel che ho fatto, esso non deve ricadere su di me, ma sulla signora. Come si fa a non arrendersi a tante grazie? La bella Persiana, che era d'accordo con Nureddin, prese le parti di Sheih Ibrahim. - Sheih Ibrahim, - gli disse; - lasciatelo dire e agite liberamente: continuate a bere e rallegratevi. Qualche minuto dopo, Nureddin versò da bere a sé stesso e alla bella Persiana. Sheih Ibrahim, vedendo che non versava da bere anche a lui, prese una coppa e gliela presentò dicendo: - E io? Pretendete forse che io non beva come voi? A queste parole di Sheih Ibrahim, Nureddin e la bella Persiana scoppiarono in una fragorosa risata. Nureddin gli versò da bere e continuarono a divertirsi, a ridere e a bere fin quasi a mezzanotte. Verso quell'ora, la bella Persiana notò che la tavola era illuminata da una sola candela. - Sheih Ibrahim, - disse a quel buon vecchio di portiere, avete portato soltanto un moccolo, e qui ci sono tante belle candele! Vi prego, fateci il piacere di accenderle, affinché possiamo vederci meglio. Sheih Ibrahim usò la libertà che dà il vino quando ci ha riscaldato la testa e per non interrompere un discorso che aveva intavolato con Nureddin, disse a quella bella creatura: - Accendetele voi stessa; ciò si addice di più a una giovane come voi. Ma state attenta ad accenderne soltanto cinque o sei, e ve lo dico a ragione; queste basteranno. La bella Persiana si alzò, andò a prendere una candela e l'accese al moccolo che era sopra la tavola, e accese le ottanta candele senza badare a quanto le aveva detto Sheih Ibrahim. Poco dopo, mentre Sheih Ibrahim intratteneva la bella Persiana su un altro argomento, Nureddin lo pregò a sua volta di avere la cortesia di accendere qualche lampadario. Senza fare attenzione al fatto che tutte le candele erano accese, Sheih Ibrahim rispose: - Dovete essere ben pigro o avere meno vigore di me per non poterli accendere voi stesso. Su, accendeteli; ma soltanto tre. Invece di accenderne tre, egli li accese tutti e aprì le ottanta finestre, senza che Sheih Ibrahim, intento a chiacchierare con la bella Persiana, se ne accorgesse. Il califfo Harun-al-Rashid a quell'ora non si era ancora ritirato; era in una sala del suo palazzo, che arrivava fino al Tigri, e guardava verso il giardino e il padiglione delle pitture. Aprì per caso una finestra da quel lato e fu estremamente stupito vedendo il padiglione tutto illuminato, tanto più che, per il grande chiarore, in un primo momento pensò che la città fosse in fiamme. Il gran visir Giafar era ancora con lui e aspettava solo il momento in cui il califfo si sarebbe ritirato per rientrare a casa sua. Il califfo lo chiamò in preda a una grande collera: - Negligente visir, - esclamò. - Vieni qui, avvicinati, guarda il padiglione delle pitture e dimmi perché è illuminato a quest'ora, senza che io vi sia. Il gran visir tremò a questa notizia, temendo che fosse realmente così. Si avvicinò e tremò di più quando ebbe visto che quello che gli aveva detto il califfo era vero. Bisognava, intanto, trovare un pretesto per calmarlo. - Principe dei credenti, - gli disse, - a questo proposito non posso dire altro a Vostra Maestà se non che, quattro o cinque giorni fa, Sheih Ibrahim venne a presentarmisi; mi dichiarò che aveva l'intenzione di organizzare una riunione dei dignitari della sua moschea per una certa cerimonia che egli era ben lieto di far celebrare sotto il felice regno di Vostra Maestà. Gli chiesi che cosa desiderava che io facessi per lui in questa occasione, ed egli mi supplicò di ottenere da Vostra Maestà il permesso di tenere la riunione e la cerimonia nel padiglione. Lo congedai dicendogli che poteva farlo, e che non avrei mancato di parlarne a Vostra Maestà; vi chiedo perdono di averlo dimenticato. Evidentemente Sheih Ibrahim ha scelto questo giorno per la cerimonia e, offrendo un banchetto ai dignitari della moschea, ha voluto dare loro il piacere di questa illuminazione. - Giafar, - riprese il califfo in un tono che dimostrava che si era un po' calmato, - da quanto mi hai detto vedo che hai commesso tre errori imperdonabili: il primo, quello di aver dato a Sheih Ibrahim il permesso di organizzare questa cerimonia nel mio padiglione: un semplice portiere non è un dipendente tanto importante da meritare tanto onore; il secondo, di non avermene parlato; e il terzo di non aver capito la vera intenzione di quel brav'uomo. Infatti, sono convinto che non ne ha avuto altra fuorché quella di tentare di ottenere una gratifica che lo aiutasse a sostenere questa spesa. Tu non ci hai pensato, e non gli do torto se si vendica di non averla ottenuta spendendo di più con quest'illuminazione. Il gran visir Giafar, contento che il califfo prendesse la cosa in questo modo, s'incolpò con piacere degli errori che gli rimproverava, e ammise francamente di avere sbagliato a non dare qualche moneta d'oro a Sheih Ibrahim. - Stando così le cose, - aggiunse il califfo sorridendo, - è giusto che tu sia punito per questi errori, ma la punizione sarà lieve: dovrai cioè passare il resto della notte con me insieme con quelle brave persone che sono ben lieto di vedere. Mentre vado a indossare un abito da borghese, va' a travestirti anche tu con Mesrur, e venite entrambi con me. Il visir Giafar volle fargli notare che era tardi e che la compagnia si sarebbe sciolta prima che essi arrivassero. Ma il califfo gli replicò che voleva assolutamente andarci. Poiché non c'era niente di vero in quanto gli aveva detto, il visir si disperò per la risoluzione del califfo; ma bisognava ubbidire senza replicare. Il califfo uscì dal suo palazzo, travestito da borghese, col gran visir Giafar e Mesrur, capo degli eunuchi; e camminò per le vie di Bagdad, fino al giardino. La porta era aperta per la negligenza di Sheih Ibrahim che aveva dimenticato di chiuderla tornando dall'aver comprato il vino. Il califfo ne fu scandalizzato. - Giafar, - disse al gran visir, - perché la porta è aperta a quest'ora? E' possibile che Sheih Ibrahim abbia l'abitudine di lasciarla aperta durante la notte? Preferisco credere che la preoccupazione della festa gli abbia fatto commettere questo errore. Il califfo entrò nel giardino; e, arrivato al padiglione, poiché non voleva entrare nella sala prima di sapere che cosa vi stesse accadendo, si consultò con il gran visir per sapere se dovesse salire sugli alberi più vicini alla sala per rendersene conto. Ma, guardando la porta della sala, il gran visir si accorse che era accostata e ne avvertì il califfo. Sheih Ibrahim l'aveva lasciata così quando si era fatto convincere a entrare e a tener compagnia a Nureddin e alla bella Persiana. Il califfo abbandonò il suo primo disegno: salì fino alla porta della sala senza far rumore; la porta era semi-aperta in modo che egli poteva vedere quelli che erano dentro senza essere visto. Il suo stupore fu dei più grandi quando vide una dama di una bellezza senza pari e un giovane così ben fatto, e Sheih Ibrahim seduto a tavola con loro. Sheih Ibrahim, tenendo la coppa fra le mani, diceva alla bella Persiana: - Mia bella dama, un buon bevitore non deve mai bere senza cantare prima una canzonetta. Fatemi l'onore di ascoltarmi: ve ne canterò una delle più graziose. Sheih Ibrahim cantò; e il califfo ne fu tanto più stupito in quanto fino a quel momento aveva ignorato che quello bevesse vino; e l'aveva considerato un uomo saggio e posato, come gli era sempre parso. Si allontanò dalla porta con la stessa precauzione con la quale vi si era avvicinato e si avvicinò al gran visir Giafar che era sulla scala, qualche gradino più in basso. - Sali, - gli disse, - e guarda se quelli che stanno là dentro sono dignitari di moschea, come hai voluto farmi credere. Dal tono con cui il califfo pronunciò queste parole, il gran visir capì benissimo che le cose andavano male per lui. Salì; e guardando attraverso la fessura, tremò di terrore per sé quando ebbe visto le stesse tre persone nella posizione e nello stato in cui erano. Ritornò dal califfo, tutto confuso; e non seppe che cosa dirgli. - E' veramente inammissibile, - gli disse il califfo, - che delle persone abbiano l'ardire di venire a divertirsi nel mio giardino e nel mio padiglione, e che Sheih Ibrahim permetta di farle entrare e si diverta con loro! Tuttavia non credo che sia possibile vedere un giovane e una giovane dama fatti meglio né meglio assortiti. Prima di far esplodere la mia collera, voglio informarmi bene e sapere chi possono essere e per quale circostanza si trovino qui. Ritornò alla porta per osservarli ancora, e il visir, che lo seguiva, rimase dietro di lui mentre egli li guardava. Tutti e due sentirono Sheih Ibrahim dire alla bella Persiana: - Mia amabile dama, desiderate qualcosa affinché possiamo rendere più completa la nostra gioia di questa serata? - Mi sembra, - rispose la bella Persiana, - che tutto andrebbe bene se aveste e poteste portarmi uno strumento che io possa suonare. - Signora, - riprese Sheih Ibrahim, - sapete sonare il liuto? - Portatelo, - gli disse la bella Persiana, - e vi farò vedere. Senza allontanarsi troppo dal suo posto, Sheih Ibrahim tirò fuori un liuto da un armadio e lo diede alla bella Persiana, che cominciò ad accordarlo. Intanto, il califfo si rivolse a Giafar e gli disse: - Giafar, ora la giovane dama suonerà il liuto: se suona bene la perdonerò e, per amor suo, farò lo stesso con il giovane; per quanto riguarda te, ti farò impiccare. - Principe dei credenti, - rispose il gran visir, - stando così le cose, prego dunque Iddio che ella suoni male. - E perché? - chiese il califfo. - Quanti più saremo, - replicò il visir, - tanto più avremo modo di consolarci di morire in bella e buona compagnia. Il califfo, che amava le arguzie, si mise a ridere a questa replica; e rivolgendosi di nuovo verso la porta, prestò orecchio per ascoltare la bella Persiana che suonava. La bella Persiana già preludiava in un modo tale da far comprendere al califfo che suonava da maestra. Poi cominciò a cantare un'aria, accompagnando la sua mirabile voce con il liuto, e lo fece con tanta arte e perfezione, che il califfo ne fu incantato. Appena la bella Persiana ebbe finito di cantare, il califfo scese la scala seguito dal visir Giafar. Arrivato in basso, disse al visir: - In vita mia non ho mai sentito una voce più bella, né mai sentito suonare meglio il liuto. Isacco (2), che credevo il più abile sonatore che esisteva al mondo, non le si avvicina neppure. Ne sono così contento, che voglio entrare per sentirla suonare in mia presenza: si tratta di sapere in che modo. - Principe dei credenti, - rispose il gran visir, - se entrate e Sheih Ibrahim vi riconosce, morirà di spavento. - E' questo che mi preoccupa, - replicò il califfo, - e mi dispiacerebbe essere la causa della sua morte, dopo tanto tempo che è al mio servizio. Mi viene in mente un piano che forse mi riuscirà: resta qui con Mesrur, e aspettate il mio ritorno nel primo viale. La vicinanza del Tigri aveva dato modo al califfo di deviare, sopra un voltone opportunamente arginato, tanta acqua da formare un bel bacino dove venivano a raccogliersi i più bei pesci del Tigri. I pescatori lo sapevano bene, e avrebbero tanto desiderato avere la libertà di potervi pescare, ma il califfo aveva espressamente proibito a Sheih Ibrahim di permettere che nessuno vi si avvicinasse. Tuttavia, quella stessa notte un pescatore, passando davanti alla porta del giardino dopo che il califfo vi era entrato e l'aveva lasciata aperta come l'aveva trovata, aveva approfittato dell'occasione e si era introdotto nel giardino fino al bacino. Questo pescatore aveva gettato le sue reti, ed era sul punto di ritirarle nel momento in cui il califfo che, dopo la negligenza di Sheih Ibrahim aveva previsto quello che stava per accadere e voleva approfittare di questa circostanza per il suo piano, si avvicinò anche lui allo stesso posto. Nonostante il travestimento, il pescatore lo riconobbe e si gettò subito ai suoi piedi, chiedendogli perdono e scusandosi con il pretesto della povertà. - Rialzati e non temere niente, - rispose il califfo, - tira soltanto le tue reti e fammi vedere il pesce che ci sarà dentro. Il pescatore, rassicurato, eseguì prontamente il desiderio del califfo e trasse a riva cinque o sei bei pesci, tra i quali il califfo scelse i due più grossi e li fece unire per la testa con un fuscello, dicendo: - Dammi il tuo abito e prendi il mio. - Lo scambio avvenne in pochi momenti, e appena il califfo fu vestito da pescatore, dalle scarpe al turbante, disse al pescatore: - Prendi le tue reti e vai per i fatti tuoi. Quando il pescatore fu andato via, molto contento della sua buona sorte, il califfo prese i due pesci in mano e tornò da Giafar e da Mesrur. Si fermò davanti al gran visir che non lo riconobbe. - Che vuoi? - gli chiese. - Vattene, va' per la tua strada. - Il califfo si mise subito a ridere e il gran visir lo riconobbe. Principe dei credenti, - esclamò, - è possibile che siate voi? Non vi avevo riconosciuto e vi chiedo mille volte perdono per la mia scortesia. Ora potete entrare nella sala senza paura che Sheih Ibrahim vi riconosca. - Restate ancora qui, - disse il califfo a lui e a Mesrur, mentre io vado a recitare la mia parte. Il califfo giunse nella sala e bussò alla porta. Nureddin, che lo sentì per primo, avvertì Sheih Ibrahim, che chiese chi fosse. Il califfo aprì la porta e, avanzando solo di un passo nella sala per farsi vedere, rispose: - Sheih Ibrahim, sono il pescatore Kerim: poiché mi sono accorto che state offrendo un banchetto ai vostri amici, e poco fa ho pescato due bei pesci, vengo a chiedervi se ne avete bisogno. Nureddin e la bella Persiana furono felici di sentir parlare di pesci. - Sheih Ibrahim, - disse subito la bella Persiana, - vi prego, fateci il piacere di farlo entrare affinché ci mostri i suoi pesci. - Sheih Ibrahim non era più in condizioni di chiedere al preteso pescatore come e da dove fosse arrivato: pensò solo ad accontentare la bella Persiana. Girò dunque la testa verso la porta, con molta difficoltà tanto aveva bevuto, e ingarbugliandosi disse al califfo, che scambiava per un pescatore. - Avvicinati, buon ladro notturno, avvicinati affinché ti si possa vedere. Il califfo avanzò e, imitando alla perfezione tutte le maniere di un pescatore, mostrò i due pesci: - Questo è davvero del bel pesce! - esclamò la bella Persiana; ne mangerei volentieri, se fosse cotto e ben preparato. - La signora ha ragione, - riprese Sheih Ibrahim; - che vuoi che ce ne facciamo del tuo pesce se non è cotto? Va', preparacelo tu stesso e poi portacelo: troverai tutto il necessario nella mia cucina. Il califfo tornò dal gran Visir Giafar. - Giafar, - gli disse, - sono stato ricevuto benissimo, ma mi chiedono di cucinare questo pesce. - Lo cucinerò io, - rispose il gran visir; - sarà pronto in un momento. - Mi sta tanto a cuore, - riprese il califfo, - la buona riuscita del mio piano, che lo cucinerò io stesso. Poiché faccio così bene il pescatore, posso fare anche il cuoco: nella mia gioventù mi sono interessato di cucina, e non me la cavavo male. Dicendo queste parole, si era diretto verso la casa di Sheih Ibrahim, seguito dal gran visir e da Mesrur. Si misero all'opera tutti e tre e, sebbene la cucina di Sheih Ibrahim non fosse grande, poiché tuttavia non mancava niente di ciò che serviva loro, prepararono in poco tempo il piatto di pesce. Il califfo lo portò; e, servendolo, mise anche un limone davanti a ognuno affinché se ne servissero nel caso che lo desiderassero. Essi mangiarono di buon appetito, soprattutto Nureddin e la bella Persiana; e il califfo restò in piedi davanti a loro. Quando ebbero finito, Nureddin guardò il califfo e gli disse: - Pescatore, non si può mangiare un pesce migliore, e ci hai fatto il più gran piacere del mondo. - Nello stesso tempo si mise la mano in petto e ne tirò fuori la borsa, dove c'erano trenta monete d'oro, quanto restava cioè delle quaranta dategli da Sangiar, usciere del re di Bassora, prima della sua partenza.- Tieni, - gli disse, - te ne darei di più se ne avessi: ti avrei messo al sicuro dalla povertà, se ti avessi conosciuto prima di avere speso il mio patrimonio; tuttavia, accetta di buon cuore questo denaro come se si trattasse di un dono molto più considerevole. Il califfo prese la borsa ringraziando Nureddin e, sentendo che essa conteneva dell'oro, gli disse: - Signore, non posso ringraziarvi abbastanza per la vostra liberalità. Si è molto fortunati quando si ha da fare con persone oneste come voi; ma, prima di ritirarmi, devo rivolgervi una preghiera che vi supplico di esaudire. Vedo qui un liuto che mi fa capire che la signora lo sa sonare. Se potete ottenere da lei che mi faccia la grazia di suonare un'aria, me ne andrò via come l'uomo più felice del mondo: è uno strumento che mi piace immensamente. - Bella Persiana, - disse subito Nureddin rivolgendosi a lei, vi chiedo questa grazia; spero che non me la negherete. Lei prese il liuto e, dopo averlo accordato per qualche istante, suonò e cantò un'aria che fece andare in visibilio il califfo. Dopo aver finito, continuò a suonare senza cantare e lo fece con tanta forza e tanta grazia che egli restò rapito come in estasi. Quando la bella Persiana ebbe smesso di suonare, il califfo esclamò: - Ah! che voce, che mano e che suono! Si è mai cantato meglio, o suonato meglio il liuto? Non si è mai visto né sentito niente di simile! Nureddin, che aveva l'abitudine di donare ciò che gli apparteneva a tutti quelli che ne facevano le lodi, rispose: - Pescatore, vedo che te ne intendi; poiché lei ti piace tanto, è tua, te la regalo. Nello stesso tempo si alzò, prese il mantello che si era tolto, e fece per andar via lasciando il califfo, che egli conosceva solo come pescatore, in possesso della bella Persiana. La bella Persiana, estremamente stupita dalla liberalità di Nureddin, lo trattenne: - Signore, - gli disse guardandolo teneramente, - dove volete andare, dunque? Rimettetevi al vostro posto, ve ne supplico, e ascoltate quel che ora suonerò e canterò. Egli fece ciò che lei desiderava; e allora, prendendo il liuto e guardando Nureddin con le lacrime agli occhi, lei cantò dei versi composti sul momento e gli rimproverò vivamente il poco amore che egli nutriva per lei, visto che l'abbandonava con tanta leggerezza e tanta durezza a Kerim, ella voleva dire, senza spiegarsi di più, a un pescatore come Kerim, che, al pari di Nureddin, non conosceva come califfo. Finendo, si mise il liuto vicino e si portò il fazzoletto al viso per nascondere le lacrime che non riusciva a trattenere. Nureddin non rispose una parola a questi rimproveri e con il suo silenziò manifestò che non si pentiva del dono fatto al pescatore. Ma il califfo, stupito da quello che aveva sentito, gli disse: - Signore, a quanto vedo, questa dama così bella, così rara, cosi mirabile, che mi avete donato con tanta generosità, è la vostra schiava e voi siete il suo padrone. - Proprio così, Kerim, - rispose Nureddin, - e ti stupiresti molto di più se ti raccontassi tutte le disgrazie che mi sono capitate a causa sua. - Eh! di grazia, signore, - replicò il califfo recitando sempre alla perfezione il personaggio del pescatore, - fatemi la cortesia di raccontarmi la vostra storia. Nureddin, che aveva fatto per lui cose ben più importanti, sebbene lo credesse un semplice pescatore, volle avere anche questa compiacenza. Gli raccontò tutta la sua storia, cominciando dall'acquisto della bella Persiana che il visir suo padre aveva fatto per il re di Bassora, e non omise niente di quanto aveva fatto e di tutto quello che gli era capitato fino al loro arrivo a Bagdad e fino al momento in cui gli stava parlando. Quando Nureddin ebbe finito, il califfo chiese: - E ora, dove andate? - Dove vado? - rispose il giovane, - dove Dio mi guiderà. - Se date retta a me, - rispose il califfo, - non andrete più oltre: anzi dovete ritornare a Bassora. Vi darò una breve lettera che consegnerete al re da parte mia; vedrete che vi riceverà benissimo, appena l'avrà letta, e nessuno dirà niente. - Kerim - replicò Nureddin, - quello che mi dici è molto singolare: non si è mai sentito che un pescatore come te sia in corrispondenza con un re! - Questo non deve stupirvi, - replicò il califfo: - abbiamo studiato insieme con gli stessi maestri, e siamo sempre stati i migliori amici del mondo. E' vero che la sorte non ci è stata ugualmente favorevole: ha fatto lui re e me pescatore; ma questa disparità non ha diminuito la nostra amicizia. Egli avrebbe voluto tirarmi fuori dal mio stato con tutta la sollecitudine immaginabile. Io mi sono accontentato della considerazione che egli ha di non negarmi niente di ciò che gli chiedo per aiutare i miei amici: lasciatemi fare, e ne vedrete il buon esito. Nureddin acconsentì al volere del califfo. Poiché nella sala c'era tutto il necessario per scrivere, il califfo scrisse questa lettera al re di Bassora, in alto della quale, quasi sull'estremità del foglio, aggiunse questa formula in caratteri piccolissimi: "In nome di Dio molto misericordioso", per indicare che voleva assolutamente essere ubbidito.   LETTERA DEL CALIFFO HARUN-AL-RASHID AL RE DI BASSORA. "Harun-al-Rashid, figlio di Mahdi, manda questa lettera a Mohammed Zinebi, suo cugino. Appena Nureddin, figlio del visir Khacan, latore di questa lettera, te l'avrà consegnata e tu l'avrai letta, levati subito il mantello reale, mettiglielo sulle spalle e fallo sedere al tuo posto, e non mancare di farlo. Addio". Il califfo piegò e sigillò la lettera; e, senza comunicare a Nureddin che cosa conteneva, gli disse: - Prendetela, e andate subito a imbarcarvi su un bastimento che salperà fra poco; infatti ne parte uno ogni giorno alla stessa ora; dormirete a bordo. Nureddin prese la lettera e partì col poco denaro che aveva in dosso quando l'usciere Sangiar gli aveva dato la sua borsa, e la bella Persiana, inconsolabile per la sua partenza, si mise in un angolo del divano e scoppiò in pianto. Nureddin era appena uscito dalla sala, quando Sheih Ibrahim, che aveva mantenuto il silenzio durante tutto quel che era capitato, guardò il califfo, scambiandolo sempre per il pescatore Kerim, e gli disse: - Ascolta, Kerim, tu sei venuto a portarci due pesci che al massimo valgono dieci monete di rame; e, per questo, ti è stata data una borsa e una schiava. Pensi che tutto ciò sia per te? Ti dichiaro che voglio dividere la schiava con te. Per quanto concerne la borsa, mostrami il suo contenuto; se si tratta di argento, ne prenderai una moneta per te; se contiene dell'oro, prenderò tutto io e ti darò alcune monete di rame, che mi restano in borsa. Per capire bene ciò che seguirà, disse Sherazad a questo punto interrompendo il racconto, dovete sapere che, prima di portare nella sala il pesce cucinato, il califfo aveva incaricato il gran visir Giafar di andare in fretta a palazzo, e di far venire quattro camerieri con un abito; e di aspettarlo dall'altro lato del padiglione finché egli avesse battuto le mani da una delle finestre. Il gran visir aveva eseguito quest'ordine; e lui e Mesrur, con i quattro camerieri, aspettavano nel luogo indicato il segnale del califfo. Ritorno al mio racconto, aggiunse la sultana. Il califfo, sempre nelle vesti del pescatore, rispose coraggiosamente a Sheih Ibrahim: - Sheih Ibrahim, io non so che cosa ci sia nella borsa: argento o oro, lo dividerò molto volentieri a metà con voi, per quel che riguarda la schiava, voglio averla per me solo. Se non volete sottostare alle condizioni che vi propongo, non avrete niente. Sheih Ibrahim, sopraffatto dalla collera per questa insolenza, considerando che gli veniva fatta da un pescatore, prese un vaso di porcellana che era sulla tavola e lo gettò in testa al califfo. Il califfo non fece fatica a scansare il vaso scagliato da un uomo in preda al vino: esso urtò contro il muro infrangendosi in molti pezzi. Sheih Ibrahim, più arrabbiato di prima, dopo avere sbagliato il colpo, prende la candela che era sulla tavola, si alza barcollando e scende per una scala nascosta con l'intenzione di andare a prendere un bastone. Il califfo approfittò di questo intervallo e, affacciatosi a una finestra batté le mani. Il gran visir, Mesrur e i quattro camerieri furono da lui in un attimo, e i camerieri gli tolsero subito l'abito da pescatore e gli misero quello che avevano portato. Non avevano ancora finito ed erano ancora occupati intorno al califfo, che era seduto sul trono che aveva nella sala, quando Sheih Ibrahim, spinto dall'interesse, rientrò con un grosso bastone in mano, con il quale si riprometteva di ricompensare per bene il preteso pescatore. Invece di vederlo, egli vide il suo vestito in mezzo alla sala e vide il califfo sul trono col gran visir e Mesrur ai lati. Si fermò a quello spettacolo, non sapendo più se sognasse o se fosse sveglio. Il califfo si mise a ridere del suo stupore: - Sheih Ibrahim, - gli disse, - che vuoi? Che cerchi? Sheih Ibrahim, non potendo più dubitare che fosse il califfo, si gettò ai suoi piedi, con la faccia e la lunga barba contro il pavimento. - Principe dei credenti, - esclamò, - il vostro vile schiavo vi ha offeso; egli implora la vostra clemenza e vi chiede mille volte perdono. - Poiché i camerieri avevano finito in quel momento di vestirlo, il califfo, scendendo dal trono, gli disse: - Alzati, ti perdono. Il califfo si rivolse poi alla bella Persiana, che aveva dato tregua al suo dolore appena si era accorta che il giardino e il padiglione appartenevano a quel principe e non a Sheih Ibrahim, come Sheih Ibrahim aveva lasciato credere, e che era stato lui in persona a fingersi pescatore. - Bella Persiana, - le disse, - alzatevi e seguitemi. Dopo quanto avete visto, dovete sapere chi sono io, e che, per la mia condizione, non approfitto del dono della vostra persona che Nureddin mi ha fatto con una generosità senza pari. Io l'ho mandato a Bassora per farlo eleggere re di quella città, e manderò anche voi per essere regina, appena gli avrò fatto recapitare i dispacci necessari per il suo insediamento. Nell'attesa, vi assegno un appartamento nel mio palazzo, dove sarete trattata secondo il vostro merito. Questo discorso consolò e rassicurò la bella Persiana su un punto molto importante; e lei compensò pienamente la sua afflizione con la gioia di sapere che Nureddin, da lei amato appassionatamente, era stato innalzato a una dignità così alta. Il califfo mantenne la parola che le aveva dato; la raccomandò persino a Zobeide, sua moglie, dopo averla messa a conoscenza della considerazione che aveva avuto per Nureddin. Il ritorno di Nureddin a Bassora fu felice e anticipato di qualche giorno, più di quanto fosse augurabile per la sua fortuna. Arrivando non vide né parenti né amici; andò dritto al palazzo del re, e vi arrivò mentre il re teneva udienza. Egli fendette la calca, mostrando la lettera con la mano alzata; gli fecero posto ed egli la presentò al sovrano. Il re la prese, l'aprì e leggendola trascolorò. La baciò tre volte, e stava per eseguire l'ordine del califfo, quando pensò di mostrarla al visir Sauy, irriconciliabile nemico di Nureddin. Sauy, che aveva riconosciuto Nureddin e cercava in sé stesso con grande inquietudine lo scopo del suo arrivo, non fu meno stupito del re per l'ordine contenuto nella lettera. Poiché non vi era meno interessato, escogitò subito il mezzo per evitare di eseguirlo. Finse di non averla letta bene; e, per leggerla una seconda volta, si girò un po' di lato come per cercare una luce migliore. Allora, senza che nessuno se ne accorgesse e in modo che non si vedesse, strappò la formula in cima al foglio, che attestava che il califfo voleva assolutamente essere ubbidito la portò alla bocca e l'inghiottì. Dopo una così grande cattiveria, Sauy si rivolse al re, gli rese la lettera; e, parlando a voce bassa, gli chiese: - Ebbene, Sire, qual è l'intenzione di Vostra Maestà? - Fare ciò che il califfo mi ordina, - rispose il re. - Guardatevene bene, Sire, - riprese il cattivo visir, - questa è certamente la scrittura del califfo, ma non c'è la formula. Il re l'aveva notata benissimo, ma, turbato com'era, pensò di avere sbagliato, non vedendola più. - Sire - continuò il visir, - non c'è da dubitare: il califfo deve aver accordato questa lettera a Nureddin, per sbarazzarsi di lui dopo le lamentele che egli è andato a fare contro Vostra Maestà e contro di me. Ma egli non vuole che voi eseguiate l'ordine che essa contiene. Inoltre, dobbiamo considerare che non ha inviato un messo con la lettera patente, senza la quale essa è inutile. Non si depone un re come Vostra Maestà senza questa formalità: chiunque potrebbe venire come Nureddin con una lettera falsa. E' una cosa che non si è mai fatta. Sire, Vostra Maestà può fare assegnamento sulla mia parola e mi assumo tutte le conseguenze che possono derivarne. Il re Zinebi si lasciò convincere e abbandonò Nureddin alla discrezione del visir Sauy, che lo portò in casa sua sotto scorta. Appena arrivato, lo fece bastonare finché restò come morto, e, in questo stato lo fece portare in prigione dove chiese che lo mettessero nella cella più buia e più bassa, dando ordine al carceriere di dargli solo pane e acqua. Quando Nureddin, pesto per i colpi ricevuti, tornò in sé e si vide in quella cella, levò grida pietose deplorando la sua infelice sorte. - Ah! pescatore, - esclamò, - come mi hai ingannato e come sono stato leggero a crederti! Potevo aspettarmi un destino così crudele dopo il bene che ti ho fatto? Dio ti benedica, tuttavia; non posso credere che la tua intenzione sia stata cattiva, e avrò pazienza fino alla fine delle mie pene. L'afflitto Nureddin restò dieci giorni interi in quello stato, e il visir Sauy non lo dimenticò. Deciso a fargli perdere la vita vergognosamente, non osò farlo di sua autorità. Per riuscire nel suo terribile piano, caricò parecchi suoi schiavi di ricchi doni e, precedendoli, andò a presentarsi al re. - Sire, - gli disse con nefanda malignità, - ecco ciò che il nuovo re supplica Vostra Maestà di gradire, per il suo avvento alla corona. - Il re comprese quello che Sauy voleva fargli capire. - Che! - rispose, - quello sciagurato vive ancora? Credevo che tu l'avessi fatto morire. - Sire, - replicò Sauy, - io non posso far togliere la vita a nessuno; è un diritto di Vostra Maestà. - Vai, - replicò il re, - fagli tagliare la testa, ti do il permesso. - Sire, - disse allora Sauy, - sono infinitamente grato a Vostra Maestà della giustizia che mi rende. Ma poiché Nureddin mi ha fatto così pubblicamente l'affronto che conoscete, vi chiedo la grazia di acconsentire che l'esecuzione avvenga davanti al palazzo, e che i banditori vadano ad annunciarla in tutti i quartieri della città, affinché nessuno ignori che l'offesa che egli mi ha fatto è stata pienamente riparata. Il re gli accordò quello che chiedeva; e i banditori, facendo il loro dovere, sparsero una generale tristezza in tutta la città. Il ricordo recentissimo delle virtù del padre fece sì che si venisse a sapere con indignazione la notizia che stavano per far morire il figlio così ignominiosamente per sollecitazione e cattiveria del visir Sauy. Sauy andò personalmente alla prigione accompagnato da una ventina dei suoi schiavi, ministri della sua crudeltà. Gli portarono Nureddin, ed egli lo fece salire su un brutto cavallo senza sella. Quando Nureddin si vide abbandonato nelle mani del suo nemico, gli disse: - Tu trionfi e abusi della tua potenza, ma ho fiducia nella verità di queste parole di uno dei nostri libri: "Voi giudicate ingiustamente, e tra poco voi stesso sarete giudicato". Il visir Sauy, che veramente trionfava dentro di sé, rispose: - Che! insolente, osi insultarmi ancora! Va', ti perdono, succeda pure quel che deve succedere purché io abbia visto tagliare la tua testa al cospetto di tutta Bassora. Devi anche conoscere ciò che dice un altro nostro libro: "CHE IMPORTA MORIRE IL GIORNO DOPO LA MORTE DEL PROPRIO NEMICO?". Questo ministro, implacabile nel suo odio e nella sua inimicizia, circondato da una parte dei suoi schiavi armati, fece portare Nurredin davanti a lui dagli altri schiavi e si diresse verso il palazzo. Il popolo stava per gettarsi su di lui e l'avrebbe lapidato, se qualcuno avesse cominciato a darne l'esempio. Quando lo ebbe portato fino alla piazza del palazzo, in vista dell'appartamento del re, lo lasciò tra le mani del boia e andò dal re che era già nel suo studio, pronto a pascere i propri occhi insieme con lui del sanguinoso spettacolo che si preparava. La guardia del re e gli schiavi del visir Sauy, che formavano un grande circolo intorno a Nureddin, faticarono molto a frenare la plebaglia, che faceva tutti gli sforzi possibili, ma inutilmente, per forzarli, rompere il cerchio e portare in salvo Nureddin. Il boia gli si avvicinò e gli disse: - Signore, vi supplico di perdonarmi la vostra morte; io sono solo uno schiavo, e non posso dispensarmi dal fare il mio dovere; a meno che non abbiate bisogno di qualcosa, mettetevi, per piacere, in posizione; il re sta per ordinarmi di colpire. - In questo momento così crudele, - disse il desolato Nureddin girando la testa a destra e a sinistra, - qualche persona caritatevole vorrebbe farmi la grazia di portarmi dell'acqua per dissetarmi? Subito ne portarono un vaso, che fecero passare di mano in mano. Il visir Sauy, che si avvide di quel ritardo, gridò al boia, dalla finestra dello studio del re alla quale era affacciato: - Che aspetti? Colpisci! A queste parole barbare e piene di crudeltà, tutta la piazza risuonò di vive imprecazioni contro di lui, e il re, geloso della sua autorità, non approvò che Sauy si fosse preso questo ardire alla sua presenza, come fece capire gridando di aspettare il suo ordine. Egli ne ebbe un altro motivo: in quel momento girò gli occhi verso una larga strada che era davanti a lui e sboccava nella piazza, e vide un gruppo di cavalieri che accorrevano a briglia sciolta. - Visir, - chiese subito a Sauy, - che significa questo? Guarda.- Sauy, immaginando che cosa poteva essere, sollecitò il re a dare il segnale al boia. - No, - riprese il re; - voglio sapere prima chi sono quei cavalieri. Era il gran visir Giafar con il suo seguito che veniva in persona da Bagdad, da parte del califfo. Per conoscere il motivo dell'arrivo a Bassora di questo ministro, bisogna sapere che, dopo la partenza di Nureddin con la lettera del califfo, questi aveva dimenticato, il giorno dopo e anche per molti altri seguenti di inviare un messo con la lettera patente di cui aveva parlato alla bella Persiana. Un giorno, mentre si trovava nel palazzo interno, che era quello della donne, passando davanti a un appartamento sentì una bellissima voce, si fermò e, appena ebbe udito alcune parole che manifestavano il dolore per una persona assente, chiese a un ufficiale degli eunuchi che lo seguiva chi fosse la donna che occupava l'appartamento. L'ufficiale rispose che era la schiava del giovane signore che egli aveva inviato a Bassora per essere re al posto di Mohammed Zinebi. - Ah! povero Nureddin, figlio di Khacan, - esclamò subito il califfo, - ti ho proprio dimenticato! Presto, - aggiunse, fatemi venire subito Giafar. - Il ministro arrivò e il califfo gli disse: - Giafar, ho dimenticato di mandare la lettera patente per far riconoscere Nureddin re di Bassora. Non c'è tempo per farla spedire, prendi degli uomini e dei cavalli e vai subito a Bassora. Se Nureddin non è più al mondo e l'hanno fatto morire, fai impiccare il visir Sauy, se non è morto, portalo da me insieme col re e con quel visir. Il gran visir Giafar impiegò solo il tempo necessario per salire a cavallo e partì subito con un buon numero di dignitari della sua casa. Egli arrivò a Bassora nel modo e nel momento che abbiamo detto. Appena entrò nella piazza, tutti si spostarono per fargli posto chiedendo a voce alta grazia per Nureddin; ed egli entrò nel palazzo con la stessa andatura fino alla scala, dove smontò. Il re di Bassora, che aveva riconosciuto il primo ministro del califfo, gli andò incontro e lo ricevette all'ingresso del suo appartamento. Il gran visir chiese per prima cosa se Nureddin fosse ancora in vita e, se viveva, di farlo venire. Il re rispose che era vivo e diede ordine di portarlo. Glielo portarono immediatamente, ma legato e incatenato; allora Giafar lo fece sciogliere e mettere in libertà e ordinò di arrestare il visir Sauy e di legarlo con le stesse corde. Il gran visir Giafar passò una sola notte a Bassora, ripartì il giorno dopo e, seguendo gli ordini ricevuti portò con sé Sauy, il re di Bassora e Nureddin. Arrivati a Bagdad, egli li portò al cospetto del califfo e, dopo che egli ebbe reso conto del suo viaggio, e in particolare dello stato in cui aveva trovato Nureddin e del trattamento che gli avevano usato per i consigli e l'animosità di Sauy, il califfo propose a Nureddin di tagliare personalmente la testa al visir Sauy. - Principe dei credenti, - rispose Nureddin, - qualsiasi male quest'uomo cattivo abbia fatto a me e abbia cercato di fare al mio defunto padre, mi considererei il più infame di tutti gli uomini se mi bagnassi le mani del suo sangue. Il califfo lo ammirò per la sua generosità e fece compiere quell'atto di giustizia dalle mani del boia. Il califfo volle inviare Nureddin a Bassora affinché vi regnasse, ma Nureddin lo supplicò di volerlo dispensare dal farlo. - Principe dei credenti, - rispose, - dopo quanto mi è capitato, la città di Bassora mi sarà così odiosa, che oso supplicare Vostra Maestà di permettermi di mantenere il giuramento che ho fatto di non tornarvi mai più in vita mia. Mi glorierò di poter rendere i miei servigi a Vostra Maestà, se avrete la bontà di accordarmene la grazia. Il califfo lo accolse nel numero dei suoi più intimi cortigiani, gli restituì la bella Persiana e gli fece tanto bene che essi vissero insieme fino alla morte con tutta la felicità che potevano desiderare. Quanto al re di Bassora, il califfo si accontentò di avergli fatto conoscere come doveva stare attento nella scelta dei suoi visir, e lo rimandò nel suo regno.