STORIA DEL CIECO BABA'-ABDALLA'.

Principe dei credenti, - continuò Babà-Abdallà, - sono nato a Bagdad, e possedevo dei beni, ereditati da mio padre e da mia madre, che morirono tutti e due a pochi giorni di distanza l'uno dall'altra. Anche se ero ancora in giovane età, tuttavia non mi comportai come un ragazzo che li avrebbe sperperati in poco tempo in spese inutili e in dissolutezze. Non trascurai nulla, invece, per accrescerli con il mio lavoro, con la mia solerzia e con le pene che mi prendevo. Infine, ero diventato abbastanza ricco da possedere io solo ottanta cammelli che noleggiavo ai mercanti delle carovane e che mi fruttavano grosse somme in ogni viaggio che intraprendevo in diversi paesi del vasto impero di Vostra Maestà, dove li accompagnavo. Nel bel mezzo di questa fortuna e con un ardente desiderio di diventare ancora più ricco, un giorno, tornando senza carico da Bassora con i miei cammelli, che avevo portato lì carichi di merci da imbarcare per le Indie, mentre li facevo pascolare in un posto molto distante da ogni abitazione, dove il buon pascolo mi aveva spinto a fermarmi, un derviscio, a piedi, diretto a Bassora, mi si avvicinò e si sedette vicino a me per riposarsi. Gli chiesi da dove venisse e dove fosse diretto. Egli mi fece le stesse domande; e, dopo che entrambi avemmo soddisfatto la nostra curiosità, unimmo le nostre provviste e mangiammo insieme. Mentre mangiavamo, dopo aver parlato di parecchie cose indifferenti, il derviscio mi disse che conosceva un posto, poco lontano da quello in cui eravamo, dove c'era un tesoro costituito da tante immense ricchezze che, anche se i miei ottanta cammelli fossero stati carichi dell'oro e delle pietre preziose che potevamo prelevare, non ci si sarebbe quasi neanche accorti della loro sottrazione. Questa buona notizia mi colpì e mi affascinò insieme. La gioia che sentivo in me stesso mi faceva sentire fuori di me. Non credevo il derviscio capace d'ingannarmi; perciò mi gettai al suo collo, dicendogli: - Buon derviscio, so bene che voi vi preoccupate poco dei beni del mondo; perciò a che cosa può servirvi l'essere a conoscenza di questo tesoro? Voi siete solo e potete prenderne soltanto una minima parte. Indicatemi dov'è: caricherò i miei ottanta cammelli e ve ne regalerò uno, in riconoscenza del bene e del piacere che mi avrete fatto. Offrivo poca cosa, è vero; ma, a quanto mi pareva, era molto di fronte all'eccessiva avarizia che improvvisamente si era impadronita del mio animo da quando mi aveva fatto quella confidenza; e consideravo quasi niente i settantanove cammelli che dovevano restare me, in confronto a quello di cui mi sarei privato cedendoglielo. Il derviscio, che notò la mia strana passione per le ricchezze, non si scandalizzò tuttavia dell'assurda offerta che gli avevo fatto; e, senza scomporsi, mi disse: - Fratello, voi stesso vi renderete ben conto che quanto mi offrite non è proporzionato al beneficio che mi chiedete. Potevo fare a meno di parlarvi del tesoro e conservare il mio segreto; ma, il fatto che ve ne abbia parlato deve farvi capire la buona intenzione che avevo, e che ho ancora di farvi un piacere e di darvi modo di ricordarvi per sempre di me, facendo la vostra fortuna e la mia. Ho dunque un'altra proposta più giusta e più equa da farvi; dipende da voi vedere se vi conviene. Voi dite, continuò il derviscio, - di avere ottanta cammelli, sono pronto a portarvi dove si trova il tesoro; voi e io caricheremo i cammelli di tutto l'oro e di tutte le pietre preziose che essi potranno portare, a condizione che, una volta caricate, me ne cediate la metà con il carico e teniate per voi l'altra metà, dopo di che ci separeremo, e li guideremo dove ci piacerà, voi per la vostra strada e io per la mia. Voi vedete che la spartizione non ha niente che non rispetti l'equità, e che, se voi mi concedete quaranta cammelli, avrete anche, per mio mezzo, di che comprarvene altri mille. Non potevo negare che la condizione propostami dal derviscio non fosse molto equa. Tuttavia, senza considerare le grandi ricchezze che potevo procurarmi accettandola, ritenni una grave perdita la cessione della metà dei miei cammelli, particolarmente quando pensavo che il derviscio non sarebbe diventato meno ricco di me. Insomma già ripagavo con l'ingratitudine un beneficio puramente gratuito, che non avevo ancora ricevuto dal derviscio; ma non c'era da esitare: bisognava accettare la condizione o decidermi a pentirmi per tutta la vita di aver perso, per colpa mia, l'occasione di procurarmi una grossa fortuna. Immediatamente radunai i miei cammelli e partimmo insieme. Dopo aver camminato per un po' arrivammo in una valletta abbastanza spaziosa, ma la cui entrata era strettissima. I miei cammelli riuscirono a passarvi solo uno alla volta; ma, siccome il terreno si allargava, essi riuscirono a starvi tutti insieme senza difficoltà. Le due montagne che formavano quella valletta terminando in un semicerchio all'estremità, erano tanto alte, tanto scoscese e tanto impraticabili, che non c'era da temere che nessun mortale potesse vederci mai. Arrivati tra quelle due montagne, il derviscio mi disse: - Non andiamo oltre, fermate i vostri cammelli e fateli mettere a terra in questo spazio, in modo da non aver difficoltà a caricarli; e, quando lo avrete fatto, io procederò all'apertura del tesoro. Feci quello che il derviscio mi aveva detto, e subito andai a raggiungerlo. Lo trovai con un acciarino in mano intento a raccogliere un po' di legna secca per accendere un fuoco. Appena lo ebbe acceso, vi gettò del profumo, pronunciando alcune parole di cui non capii bene il senso, e subito un denso fumo si alzò nell'aria. Egli separò quel fumo; e subito, anche se la rupe che si trovava tra le due montagne e si innalzava molto in alto in linea perpendicolare sembrava non presentare nessuna apertura apparente, con un mirabile prodigio se ne formò una grande almeno come una specie di porta a due battenti, tagliata nella roccia stessa e della stessa materia. Quell'apertura rivelò ai nostri occhi, in una profonda cavità scavata nella roccia, un magnifico palazzo, opera piuttosto di geni che di uomini: sembrava infatti impossibile che degli uomini avessero anche soltanto potuto immaginarsi un'impresa tanto ardita e tanto sorprendente. Ma, Principe dei credenti, faccio questa osservazione a Vostra Maestà a cose fatte; poiché in quel momento non ci pensai. Non ammirai nemmeno le ricchezze infinite che vedevo da ogni parte; e, senza soffermarmi a osservare la sobrietà che si era mantenuta nella disposizione di tanti tesori, come l'aquila si abbatte sulla sua preda, io mi gettai sul primo mucchio di monete d'oro che mi si presentò davanti e cominciai a metterne dentro un sacco, di cui mi ero già impadronito, quante pensai di poterne trasportare. I sacchi erano grandi, e li avrei volentieri riempiti tutti; ma bisognava proporzionarli alle forze dei miei cammelli. Il derviscio fece la stessa cosa; ma mi resi conto che preferiva piuttosto le pietre preziose, e, appena me ne ebbe fatta capire la ragione, seguii il suo esempio e portammo via un maggior numero di ogni specie di pietre preziose piuttosto che di monete d'oro. Infine finimmo di riempire tutti i nostri sacchi, e li caricammo sui cammelli. Restava solo da richiudere il tesoro e andarcene. Prima di allontanarsi, il derviscio rientrò nel tesoro e, poiché c'erano parecchi grandi vasi d'oro di ogni tipo di forma e di altre cose preziose, osservai che prese da dentro a uno di questi vasi una scatoletta di un legno a me sconosciuto e che se la mise in petto, dopo avermi fatto vedere che conteneva solo una specie di pomata. Per chiudere il tesoro, il derviscio fece la stessa cerimonia che aveva fatta per aprirlo; e dopo che ebbe pronunciato certe parole, la porta del tesoro si richiuse e la roccia ci apparve compatta come prima. Allora ci dividemmo i cammelli, che facemmo rialzare con i loro carichi. Mi misi alla testa dei quaranta che mi ero riservati, e il derviscio si mise alla testa degli altri che gli avevo ceduto. Uscimmo in fila da dove eravamo entrati nella valletta e continuammo insieme fino alla strada maestra dove dovevamo separarci: il derviscio per continuare il suo viaggio verso Bassora e io per ritornare a Bagdad. Per ringraziarlo di un così grande beneficio, usai i termini più efficaci e quelli che meglio potevano manifestargli la mia riconoscenza per avermi preferito a ogni altro mortale, facendomi partecipe di tante ricchezze. Ci abbracciammo con molta gioia; e, dopo esserci detti addio, ci allontanammo ognuno per la nostra strada. Avevo appena fatto qualche passo per raggiungere i miei cammelli che continuavano a marciare per il sentiero nel quale li avevo avviati quando il demone dell'ingratitudine e dell'invidia si impadronì del mio animo. Deploravo la perdita dei miei quaranta cammelli e ancora di più le ricchezze di cui erano carichi. "Il derviscio non ha più bisogno di tutte quelle ricchezze, - dicevo tra me; - egli è il padrone dei tesori e potrà averne quante vorrà." Perciò mi abbandonai alla più nera ingratitudine e mi decisi improvvisamente a portargli via i suoi cammelli. Per eseguire il mio piano, cominciai con il far fermare i miei cammelli; poi corsi dietro al derviscio chiamandolo con tutto il mio fiato per fargli capire che avevo ancora qualcosa da dirgli, e gli feci cenno di far fermare anche i suoi cammelli e di aspettarmi. Egli sentì la mia voce e si fermò. Quando lo ebbi raggiunto, gli dissi: - Fratello, vi avevo appena lasciato, quando ho riflettuto su una cosa alla quale prima non avevo pensato e alla quale forse non avete pensato neanche voi. Voi siete un buon derviscio, abituato a vivere tranquillamente, libero dalle cure per le cose del mondo e senz'altro compito tranne quello di servire Dio. Forse non sapete a quale fastidio vi siete esposto accollandovi un numero così grande di cammelli. Se volete darmi ascolto, ne prenderete soltanto trenta e anche così credo che avrete molta difficoltà a governarli. Potete credere a quanto dico, ne ho l'esperienza. - Penso che abbiate ragione, - rispose il derviscio, che si vedeva in condizione di non poter obiettare niente; - e confesso, - aggiunse, - che non ci avevo riflettuto. Cominciavo già a preoccuparmi di quanto mi avete detto. Scegliete dunque i dieci cammelli che volete, portateli con voi e andate con l'aiuto di Dio. Ne scelsi dieci; e, dopo averli fatti girare, li avviai perché andassero ad accodarsi ai miei. Non pensavo di convincere il derviscio con una simile facilità. Questo fatto aumentò la mia avidità e mi lusingai che non avrei incontrato maggiore difficoltà a ottenerne ancora dieci. Infatti, invece di ringraziarlo del ricco dono che mi aveva fatto, gli dissi ancora: - Fratello, per l'interesse che porto alla vostra tranquillità, non posso decidermi a separarmi da voi senza prima pregarvi di considerare ancora una volta com'è difficile, particolarmente per un uomo come voi non abituato a questo lavoro, guidare trenta cammelli carichi. Vi troverete molto meglio se mi farete una grazia simile a quella che mi avete già fatta. Vi dico questo, come vedete, non tanto per amor mio e per mio interesse, quanto per farvi un piacere più grande. Alleviatevi dunque di altri dieci cammelli, cedendoli a un uomo come me, che non ha maggiori difficoltà a prendersi cura di cento cammelli piuttosto che di uno. Il mio discorso ebbe l'effetto che desideravo, e il derviscio mi cedette senza nessuna opposizione i dieci cammelli che gli chiedevo, cosicché gliene rimasero soltanto venti; e io mi trovai padrone di sessanta cammelli carichi, il cui valore superava le ricchezze di molti sovrani. A questo punto, mi sarei dovuto sentire soddisfatto. Ma, Principe dei credenti, simile a un idropico che quanto più beve, tanto più ha sete, mi sentii più infiammato di prima dal desiderio di ottenere gli altri venti cammelli che restavano ancora al derviscio. Raddoppiai le miei sollecitazioni, le mie preghiere e le mie insistenze per fare accondiscendere il derviscio a cedermene ancora dieci dei suoi venti. Egli si arrese di buona grazia; e, quanto agli altri dieci che gli rimanevano, lo abbracciai, lo baciai e gli feci tante carezze, scongiurandolo di non rifiutarmeli e di portare così al massimo la gratitudine che gli avrei portata in eterno, che egli mi riempì di gioia annunciandomi che vi acconsentiva. - Fatene buon uso, fratello, - aggiunse, - e ricordatevi che Dio può toglierci le ricchezze come ce le concede, se non ce ne serviamo per aiutare i poveri che egli vuole lasciare nell'indigenza proprio per dar modo ai ricchi di meritare, grazie alle loro elemosine, una maggiore ricompensa nell'altro mondo. La mia cecità era tale, che non ero in condizione di approfittare di un consiglio tanto salutare. Non mi accontentai di rivedermi in possesso dei miei ottanta cammelli e di sapere che erano carichi di un inestimabile tesoro che doveva rendermi il più ricco degli uomini. Mi venne in mente che la scatoletta di pomata, di cui si era impadronito il derviscio e che mi aveva mostrato, potesse essere qualcosa di più prezioso di tutte le ricchezze di cui gli ero debitore. "Il posto dove il derviscio l'ha presa, - dicevo tra me, - e la cura che ha avuto di impadronirsene mi portano a credere che essa contenga qualcosa di misterioso". Questo mi spinse a fare in modo di ottenerla. Avevo appena finito di abbracciarlo e di dirgli addio, quando, tornando verso di lui, gli dissi: - A proposito, che volete farne di quella scatoletta di pomata? Essa mi sembra una cosa così poco importante, - aggiunsi, - che non è il caso che ve la teniate; vi prego di regalarmela. Infatti, un derviscio come voi, che ha rinunciato alla vanità del mondo, non ha bisogno di pomate. L'avesse consigliato Dio a negarmi quella scatola! Ma anche se il derviscio avesse voluto farlo, io non ero più in me; ero più forte di lui e molto deciso a togliergliela con la forza, affinché, per mia completa soddisfazione, non si potesse dire che lui portasse con sé anche la minima parte del tesoro, nonostante la grande riconoscenza che gli dovevo. Ben lontano dal negarmela, il derviscio la tirò subito fuori dal petto; e, dandomela con la migliore grazia del mondo, mi disse: - Tenete, fratello, eccola: non voglio che questa scatola vi dia motivo di scontento. Se posso fare altro per voi, dovete solo chiedermelo: sono pronto ad accontentarvi. Quando ebbi la scatola fra le mani, l'aprii; e, osservando la pomata, gli dissi: - Poiché siete così pieno di buona volontà e continuate a farmi dei piaceri, vi prego di dirmi a quale uso specifico è destinata questa pomata. - Il suo effetto è stupefacente e meraviglioso, - replicò il derviscio. - Se applicate un po' di questa pomata intorno all'occhio sinistro e sulla palpebra, essa farà apparire davanti ai vostri occhi tutti i tesori che sono nascosti nelle viscere della terra; ma se l'applicate sull'occhio destro, essa vi renderà cieco. - Volevo sperimentare personalmente un così mirabile effetto. - Prendete la scatola, - dissi al derviscio porgendogliela, - e applicatemi voi stesso un po' di pomata sull'occhio sinistro: voi siete più pratico di me. Sono impaziente di sperimentare una cosa che mi sembra incredibile. Il derviscio accettò volentieri di farmi questo piacere. Mi fece chiudere l'occhio sinistro e mi applicò la pomata. Quando l'ebbe fatto, aprii l'occhio e vidi che mi aveva detto la verità. Vidi, infatti, un numero infinito di tesori, pieni di ricchezze tanto prodigiose e tanto varie che mi sarebbe impossibile descriverle esattamente una per una. Ma, poiché ero costretto a tenere l'occhio destro chiuso con la mano, e questa posizione mi stancava, pregai il derviscio di applicarmi un po' di pomata anche intorno a quest'occhio. - Sono pronto a farlo, - mi disse il derviscio; - ma dovete ricordarvi, - aggiunse, - che vi ho avvertito che, se la applicate sull'occhio destro, diventerete subito cieco. Questa è la virtù della pomata: dovete adattarvici. Ben lontano dal convincermi che il derviscio mi diceva la verità, immaginai, invece, che ci fosse qualche altro mistero che voleva tenermi nascosto. - Fratello, - ripresi sorridendo, - capisco bene che volete darmela a bere; non è naturale che questa pomata abbia due effetti, così opposti l'uno all'altro. - Tuttavia le cose stanno come io vi dico, - replicò il derviscio chiamando Dio a testimone, - e dovete credermi sulla parola; infatti non sono capace di nascondere la verità. Non volli fidarmi della parola del derviscio, che mi parlava da uomo d'onore; l'irrefrenabile bramosia di contemplare a mio agio tutti i tesori della terra e forse di goderne ogni volta che lo avessi voluto, mi spinse a non ascoltare le sue rimostranze né a convincermi di una cosa che, tuttavia, era fin troppo vera, come sperimentai quasi subito per mia grande sventura. Prevenuto com'ero, immaginavo che se questa pomata, applicata sull'occhio sinistro, aveva la virtù di farmi vedere tutti i tesori della terra, applicata sul destro aveva forse virtù di metterli a mia disposizione. Con quest'idea, mi intestardii a sollecitare il derviscio ad applicarmela lui stesso intorno all'occhio destro; ma egli rifiutò costantemente di farlo. - Dopo avervi fatto tanto bene, fratello, - mi disse, - non posso decidermi a farvi tanto male. Considerate bene voi stesso che sventura è quella di essere privato della vista, e non costringetemi alla spiacevole necessità di compiangervi per una cosa della quale dovrete pentirvi per tutta la vita. - Spinsi all'estremo la mia ostinazione: - Fratello, - gli dissi piuttosto fermamente, - vi prego di passar sopra a tutte le difficoltà che mi fate; mi avete accordato molto generosamente tutto quel che vi ho chiesto finora; volete che mi separi da voi insoddisfatto per una cosa di così poca importanza? In nome di Dio, accordatemi quest'ultimo favore. Succeda quel che succeda, non me la prenderò con voi, e la colpa ricadrà soltanto su di me. Il derviscio oppose tutta la resistenza possibile; ma, vedendo che io ero in condizione di costringervelo, mi disse: - Poiché lo volete assolutamente, vi accontenterò. Prese un po' della pomata fatale e me l'applicò sull'occhio destro, che io tenevo chiuso; ma, ahimè! quando lo riaprii, altro non vidi se non fitte tenebre, e restai cieco da entrambi gli occhi come voi mi vedete. - Ah! sciagurato derviscio! - esclamai subito, - quello che mi avete predetto è purtroppo vero! Fatale curiosità, - aggiunsi, insaziabile desiderio delle ricchezze, in che abisso di sventure mi gettate! Capisco bene adesso che me le sono attirate; ma voi, caro fratello, - esclamai ancora rivolto al derviscio, - che siete così caritatevole e generoso, fra i tanti meravigliosi segreti che conoscete, non ne avete uno che possa restituirmi la vista? - Sventurato! - mi rispose allora il derviscio, - non è dipeso da me se tu non hai evitato questa disgrazia; ma hai solo quel che ti meriti, è stato l'accecamento dell'animo ad attirarti quello del corpo. E' vero che io conosco dei segreti: l'hai potuto riscontrare nel poco tempo in cui siamo stati insieme; ma non ne conosco nessuno che possa ridarti la vista. Rivolgiti a Dio, se credi che ne esista uno: soltanto lui può ridartela. Egli ti aveva dato delle ricchezze delle quali eri indegno; egli te le ha tolte e ora le darà, tramite me, a uomini che non saranno ingrati come te. Il derviscio non mi disse altro, e io non avevo niente da replicargli. Mi lasciò solo, oppresso dalla confusione e immerso in un dolore così straziante, che non si può esprimere; e, dopo aver riunito i miei ottanta cammelli, egli li guidò, e continuò il viaggio fino a Bassora. Lo pregai di non abbandonarmi in quello stato pietoso e di aiutarmi almeno a camminare fino alla prima carovana; ma egli restò sordo alle mie preghiere e alle mie grida. Così, privato della vista e di tutto quello che possedevo al mondo, sarei morto di dolore e di fame, se, il giorno dopo, una carovana che tornava da Bassora non mi avesse caritatevolmente accolto e riportato a Bagdad. Da uno stato che mi rendeva simile ai principi se non per forza e potenza, almeno per ricchezza e magnificenza, mi vidi ridotto a mendicare senza nessun'altra risorsa. Dovetti dunque decidermi a chiedere l'elemosina, ed è quello che ho fatto fino ad ora; ma, per espiare la mia colpa verso Dio, mi imposi nello stesso tempo la pena di chiedere e farmi dare uno schiaffo da ogni persona caritatevole che avrebbe avuto compassione della mia miseria. Ecco, Principe dei credenti, la ragione di ciò che ieri sembrò così strano alla Maestà Vostra e che deve aver provocato la vostra indignazione; ve ne chiedo perdono ancora una volta, come vostro schiavo e sono pronto a ricevere il castigo che ho meritato. E, se vi degnate di esprimere la vostra opinione sulla penitenza che mi sono imposta, sono convinto che la giudicherete troppo lieve e molto inferiore alla mia colpa. Quando il cieco ebbe finito la sua storia, il califfo gli disse: - Babà-Abdallà, il tuo peccato è grave; ma dio sia lodato per avertene fatto capire l'enormità e per la penitenza pubblica che ti sei imposto finora. Ma basta; d'ora in poi, devi continuarla in privato non smettendo di chiedere perdono a Dio, durante tutte le preghiere alle quali sei obbligato, ogni giorno, dalla tua religione; e, affinché tu non ne sia distolto dalla preoccupazione di elemosinare per vivere, ti faccio un'elemosina, vita natural durante, di quattro dramme d'argento al giorno, che il mio gran visir ti farà dare. Perciò non andare via e aspetta che lui abbia eseguito il mio ordine. A queste parole, Babà-Abdallà si prosternò davanti al trono del califfo e, rialzandosi, lo ringraziò, augurandogli ogni sorta di felicità e di prosperità. Il califfo Harun-al-Rashid, soddisfatto della storia di Babà-Abdallà e del derviscio, si rivolse al giovane che aveva visto maltrattare la propria cavalla, e gli chiese il suo nome, come aveva fatto con il cieco. Il giovane gli disse di chiamarsi Sidi Numan. - Sidi Numan, - gli disse allora il califfo, - ho visto istruire cavalli per tutta la mia vita, e spesso ne ho istruiti io stesso; ma non ne ho mai visto pungolare in una maniera tanto barbara come tu pungolavi ieri la tua cavalla, in piena piazza, con grande scandalo degli spettatori che protestavano a voce alta. Io non ne fui meno scandalizzato di loro, e per poco non mi sono fatto riconoscere, contro la mia intenzione, per far smettere quella vergogna. Tuttavia dal tuo aspetto non si direbbe che tu sia un uomo barbaro e crudele. Voglio anche credere che tu non agisca in questo modo senza motivo. Poiché so che questa non è la prima volta, e che già da molto tempo tu ogni giorno tratti così crudelmente la tua cavalla, voglio saperne la ragione e ti ho fatto venire qui affinché tu me la dica. Soprattutto, dimmi la cosa così com'è e non nascondermi niente. Sidi Numan capì facilmente che cosa il califfo esigeva da lui. Questo racconto gli era penoso: impallidì più volte e mostrò suo malgrado il grande imbarazzo in cui si trovava. Tuttavia bisognava decidersi a rispondere. Perciò, prima di parlare, si prosternò davanti al trono del califfo: e, dopo essersi rialzato, cercò di cominciare; ma restò turbato, colpito meno della maestà del califfo, davanti al quale si trovava, che dalla natura del racconto che doveva fargli. Sebbene fosse, per natura, impaziente di essere ubbidito nelle sue volontà, il califfo non manifestò nessuna asprezza per il silenzio di Sidi Numan: capì bene che sicuramente o mancava di coraggio davanti a lui, o era intimidito dal tono con cui gli aveva parlato, o infine che, in quanto doveva dirgli, poteva esserci qualcosa che avrebbe desiderato tenere segreta. - Sidi Numan, - gli disse il califfo per rassicurarlo, calmati, e fai come se non dovessi raccontare a me quello che ti chiedo, ma a qualche amico che te ne prega. Se in questo racconto c'è qualcosa che ti addolora e di cui pensi che io possa essere offeso, te la perdono fin da ora. Liberati dunque da tutte le tue inquietudini; parlami a cuore aperto e non nascondermi niente, come se fossi il tuo migliore amico. Sidi Numan, rassicurato dalle ultime parole del califfo, cominciò infine a parlare: Principe dei credenti, disse, per quanto sia grande l'impressione che deve colpire ogni mortale soltanto avvicinandosi a Vostra Maestà e allo splendore del trono, mi sento tuttavia abbastanza forte da credere che questa rispettosa impressione non mi toglierà la parola fino al punto di venir meno all'ubbidienza che vi devo; vi darò quindi soddisfazione su tutto quanto volete da me. Non oso considerarmi il più perfetto degli uomini; non sono neanche tanto cattivo da aver commesso e neppure dall'aver avuto l'intenzione di commettere niente contro le leggi, che possa darmi motivo di temerne la severità. Per buona che sia la mia intenzione, riconosco di non essere esente dal peccare per ignoranza; questo mi è successo. In questo caso, non dico che ho fiducia nel perdono che Vostra Maestà ha avuto la bontà di accordarmi, senza prima avermi ascoltato. Mi sottometto, invece, alla vostra giustizia e a essere punito se l'ho meritato. Ammetto che la maniera in cui tratto da qualche tempo la mia cavalla, come Vostra Maestà ha visto, è strana, crudele e di pessimo esempio; ma spero che la ragione vi sembrerà ben fondata, e che giudicherete che io sono più degno di compassione che di castigo. Ma non devo tenervi ancora oltre in ansia con un noioso preambolo. Dirò quello che mi è capitato.